Uranio impoverito. Strage senza colpevoli

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«Da semplice vedova di un militare di carriera ucciso dall’uranio impoverito, sto cercando di farmi testimone della memoria di una strage. Perché quella che abbiamo davanti è una strage silenziosa dalle dimensioni inimmaginabili». Daniela Volpi è una signora romana coraggiosa e molto battagliera che non usa a caso le parole. L’uranio impoverito lei lo conosce bene visto che nel 1999 si è portato via il marito, l’allora 42enne capitano dell’Esercito Antonino Caruso, comandante dal ’92 al ’94 della seconda compagnia incursori paracadutisti del Col. Moschin durante la missione italiana in Somalia, e in prima linea nel Corno d’Africa, in Rwanda, sui Balcani. «E’ morto per un glioblastoma, una gravissima forma di tumore al sistema nervoso centrale causato, come molte altre patologie che hanno interessato i nostri soldati, dall’esposizione all’uranio impoverito – presente nelle carcasse dei mezzi colpiti dai missili degli aerei Nato e nei proiettili – e non, come ha concluso la commissione uranio del Senato, dai ripetuti vaccini cui sono stati sottoposti negli anni o dallo stress per l’elevato rischio delle missioni. Prova ne è il fatto che a morire per le stesse malattie ma anche a nascere con menomazioni gravissime sono pure molti civili nei teatri di guerra internazionali e in prossimità di poligoni di tiro italiani, come a Torre Veneri, nel Leccese, e a Quirra, nell’Ogliastra, dove è peraltro in corso un processo contro alcuni generali e colonnelli per omissione aggravata di cautele su infortuni e disastri».

E’ una strage che ha dei responsabili precisi ma i cui nomi ancora non si conoscono: «Abbiamo una lunga tradizione di massacri in Italia e sappiamo benissimo quali sono i meccanismi che li accompagnano: omertà istituzionale, depistaggi, delegittimazioni. E oblio. Una delle cose più terribili è che i militari ammalati continuano a morire, dimenticati da tutti e scaricati dalle istituzioni, che negano di sapere e si rifiutano persino di ricevere loro e le famiglie». Lei ci ha provato con Falco Accame, l’ammiraglio ed ex deputato socialista che per primo ha portato alla ribalta la tragedia dell’uranio e ha fondato l’associazione Anavafaf. «Come associazione abbiamo chiesto un incontro col capo dello Stato Sergio Mattarella, che conosce bene la questione avendola affrontata quando era ministro della Difesa, ma la sua risposta, sfortunatamente, è stata negativa».

Le associazioni parlano di 200-300 deceduti e di oltre tremila ammalati. «Cifre approssimative», spiega Volpi, «ma per difetto». La sua esperienza, come quella dei tantissimi altri militari e civili morti per ciò che non si vuole ammettere – «Altrimenti bisognerebbe mettere al bando l’uranio e riconoscere la responsabilità oggettiva di ministri o alti rappresentanti delle istituzioni» – è dolorosissima.

«Mio marito era un uomo forte. Quando la malattia è esplosa stava a Sarajevo, dove è stato operato d’urgenza in un ospedale da campo franco tedesco. Io ero lì con lui. Una volta riportato in Italia ha subito un nuovo intervento al policlinico Gemelli di Roma, poi molta radioterapia e un tentativo con la cura Di Bella. Nel 1998 le sue condizioni erano migliorate tanto che, rientrato al lavoro, su suggerimento di alcuni colleghi aveva fatto la domanda per il riconoscimento della causa di servizio. Purtroppo, però, è morto nel 1999, 12 anni prima che il decreto arrivasse, e per giunta senza riferimenti al pericoloso metallo. Dal principio mi ero rifiutata di accettare che esistessero delle responsabilità esterne nella sua morte, ma poi mi sono informata, ho studiato, e ho capito che è proprio così. I colpevoli per la  morte di Antonino e di tante altre persone esistono e sono annidati nelle istituzioni. Mentre gli americani erano perfettamente equipaggiati, i nostri soldati sono stati mandati allo sbaraglio. Per questo vogliamo giustizia: chiediamo che venga riconosciuto a questi militari lo status di caduti per la patria»

Un segnale importante è arrivato dalla sentenza della Corte d’appello di Roma, che il mese scorso ha condannato il ministero della Difesa a pagare oltre un milione di euro per la morte di un militare italiano essendo stato riconosciuto “in termini di inequivoca certezza, il nesso di causalità tra l’esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale”. «Questo metallo altamente tossico e radioattivo sta causando anche una grande catastrofe ambientale, anch’essa passata sotto silenzio per motivi economici. L’intera vicenda, infatti, ruota intorno ad una sola cosa: ai soldi». Daniela Volpi è entrata spesso nelle università e ha scritto il saggio “Memoria pubblica e missioni di pace. Il caso della sindrome dei Balcani”, in uscita per Carocci.

Monica Zornetta (Avvenire, 24 giugno 2015)