Tamassociati. Architetti, la scommessa delle periferie

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“Le periferie. Per noi non sono semplicemente dei luoghi fisici ma sono ambienti sociali, economici, culturali che possono produrre degrado, che possono costringere gli individui che le vivono ad una esistenza ai margini, priva di diritti e, spesso, di speranze. Ecco, noi vogliamo capire quali sono i luoghi dove questi problemi sono più vivi, più intensi, e con quali azioni possiamo intervenire per risolverli”. Non hanno dubbi gli architetti dello studio Tamassociati: dalle periferie possono arrivare le energie con cui edificare il futuro delle metropoli e migliorare la vita delle persone, e intorno alle periferie hanno perciò costruito il progetto espositivo che lo scorso settembre li ha portati a vincere, sbaragliando una decina di autorevoli candidati, la curatela del padiglione Italia alla quindicesima Biennale di Architettura di Venezia.

Ammettono che non se lo aspettavano, questo prestigioso incarico, “ma ne siamo molto onorati perché, scegliendo la nostra proposta, il Mibact, il ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo, ha scelto la nostra storia. Per il Padiglione Italia non faremo certamente niente di diverso da ciò che siamo”, dice Raul Pantaleo, uno dei padri di Tam, precisando di parlare a nome dello studio, “e, dunque, anche in quel caso metteremo al primo posto l’etica, la responsabilità, la sostenibilità e il bene comune, che sono poi i nostri capisaldi. Fino a che non avremo l’ok del ministro non possiamo però aggiungere altro; i dettagli della curatela li potremo comunicare solo a marzo. Intanto continuiamo a lavorare sodo”, anche perché il 28 maggio 2016, data di apertura della Biennale, si avvicina. A curarla è il giovane architetto cileno Alejandro Aravena, che come i Tamassociati pone l’accento su un tipo di architettura di frontiera, su una progettazione che, sebbene attuata in contesti difficili, estremi, riesce a migliorare la vita delle persone. Per questo ha scelto di intitolare la prossima edizione “Reporting from the front”.

Quando, lo scorso settembre, ha annunciato il nome dei vincitori, il ministro Dario Franceschini era entusiasta: “La proposta dell’architetto (vale a dire il laboratorio di idee Tamassociati, diviso tra la sede principale di Venezia e le “filiali” di Bologna, Trieste, Parigi e Londra, ndr), affronta con coraggio il tema della riqualificazione delle periferie urbane […] al centro di una particolare attenzione da parte del governo italiano che le vede come la grande sfida del secolo su cui investire con interventi di riqualificazione e innesti di architettura contemporanea”. Da sempre lontanissimi dalle logiche delle archistar – come ha peraltro sottolineato Leopoldo Freyre, presidente del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori (Cnappc) che lo scorso gennaio ha consegnato nelle mani di Simone Sfriso, Massimo Lepore e Pantaleo, il team cioè che nel 1989 ha dato vita allo studio associato, l’ambito premio di Architetto dell’anno 2014 – i loro sguardi e i loro lavori puntano lontano. Dagli anni Novanta infatti Tamassociati ha scelto di costruire nei luoghi più remoti del mondo, quelli oltraggiati dai conflitti, profanati dalle carestie, dalle epidemie e dalle gigantesche migrazioni per motivi economici: la valle del Panshir in Afganistan, la Repubblica centrafricana, la Sierra Leone, il Sudan, l’Uganda.

Tutto è cominciato nell’estate del 2004 quando le loro strade e quelle di Emergency si sono incrociate in un villaggio chiamato Soba, a una ventina di chilometri da Khartoum, in Sudan. Lì era volato Raul Pantaleo per collaborare alla costruzione di un nuovo ospedale  voluto da Gino Strada. Tre anni dopo, lungo le rive del Nilo Azzurro, in una regione segnata da ferite profonde inferte in decenni di conflitti etnici e religiosi, è sorto “Salam” (che significa pace, in arabo), l’unica struttura gratuita e specializzata nella cura di malformazioni e patologie cardiache di tutta l’Africa. Dopo sono arrivati il centro pediatrico “La Mascota” di Managua, in Nicaragua, una clinica pediatrica a Nyala, nel Sud Darfur, costruita intorno ad un secolare baobab, un’altra a Port Sudan, realizzata al centro di una piazza/giardino; l’ampliamento di una casa per le cure riservata ai più piccoli a Free Town, in Sierra Leone, e la creazione di un ospedale di ostetricia e pediatria a Kampala, la capitale dell’Uganda, Paese ricchissimo d’acqua ma segnato da una terribile storia di sangue scritta negli anni Settanta dal dittatore Idi Amin Dada. Sempre a Kampala, in una verde collina rivolta al lago Vittoria, dal 2014 lo studio veneziano insieme con una piccola squadra di architetti locali è impegnato nella costruzione del Maisha Film Garden, un complesso voluto dalla regista indiana Mira Nair (Salaam Bombay, Monsoon Wedding, La fiera della vanità) e dalla sua ong, Maisha Film Lab, per sostenere i tanti giovani filmmakers dell’Africa orientale.

“Quattro anni fa al fronte africano e latino-americano”, continuano i “Tam”, “si è aggiunto quello asiatico, con la costruzione di ospedali in Afghanistan, la progettazione di una nuova clinica per le maternità nella valle del Panshir e la realizzazione di strutture sanitarie da campo nel sud del Kurdistan, al confine con l’Iraq. La nostra sfida è portare qualità, sostenibilità e bellitudine, come ci piace chiamarla, anche nelle zone di guerra perché, è assodato ormai, la qualità aiuta a guarire”.

Intorno a questa idea di una “architettura della cooperazione” lo studio ha costruito il suo prestigio, progettando negli anni anche eco-quartieri, cohousing, sedi di onlus e di cooperative, di banche etiche e di organizzazioni dagli obiettivi sociali, ricevendo contestualmente riconoscimenti internazionali come il premio Aga Khan, lo Ius-Capocchin, lo Zumtobel Group award e il Curry Stone Design prize.

“La disciplina dell’architettura deve rivolgersi alle persone e ai loro bisogni, deve aiutarle a rivendicare il proprio inalienabile diritto alla dignità – “il valore che non ha nessun prezzo” come lo aveva definito Immanuel Kant – ma anche alla bellezza e al vivere in luoghi accoglienti. E’ vero, non apparteniamo alla dimensione delle archistar e non ci apparterremo mai: il nostro modello è piuttosto quello dell’architetto condotto, sulla scorta dei vecchi medici di una volta, quelli che conoscevano i loro pazienti perché non si limitavano a prescrivere le ricette ma li ascoltavano per davvero”. E ascoltando la gente pochi mesi fa Tamassociati si è aggiudicato anche il concorso promosso dalla Cei per la costruzione di una nuova chiesa nel quartiere popolare del Varignano, alla periferia di Viareggio. “Abbiamo cercato di entrare in punta di piedi nella realtà di una zona dalla forte identità ma che versa in una condizione di dissesto fisico e sociale. Lì esisteva già una chiesa, costruita negli anni ’70 e oggi decisamente mal messa”, racconta Sfriso, facendosi anch’esso portavoce del collettivo. “Dopo aver ascoltato i parroci e la comunità locale abbiamo quindi progettato un edificio che si pone in continuità con la costruzione precedente ma anche con il contesto. Abbiamo voluto realizzare un progetto aperto, partecipato, migliorabile grazie ai suggerimenti della committenza e della comunità perché, non ci stancheremo mai di ripeterlo, il nostro ruolo è uno solo: tradurre in disegni e in spazi le necessità delle persone”.

Monica Zornetta (Avvenire, 16 novembre 2015)

https://www.avvenire.it/agora/pagine/architetti-periferie