Esclusivo. Quegli anni in cui il pentito Maniero abitava a Brescia

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Dopo quel telegenico “ciao Mamma”, pronunciato agitando la mano e sorridendo ai poliziotti in fratino blu e ai giornalisti che, divertiti, affollavano gli uffici della Criminalpol di Padova, di Felice Maniero si erano, come dire, smarrite le tracce. Almeno per un po’.

Era il novembre 1994 e l’allora quarantenne boss della Mala del Brenta aveva appena perso la libertà a Torino mentre, a braccetto con la compagna, Marta Bisello, passeggiava lungo la centralissima via XX Settembre. Era latitante, “Feli”, e da qualche ora i suoi movimenti venivano controllati con grande attenzione dalla Criminalpol.

Pochi mesi prima, senza colpo ferire, era evaso dal carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova, aiutato da un commando di suoi uomini travestiti da carabinieri; pochi mesi dopo farà quattro conti e deciderà di “pentirsi”, mandando in galera molti complici e costruendosi una nuova vita con un nuovo nome (Luca Mori) e molti denari;  lontano – ma non troppo – dal suo amato paese, Campolongo Maggiore (Ve), terra d’acque e di campagne.

Ed  è così che il bandito chiamato “Faccia d’angelo”, come il più celebre Francis Turatello, aveva cominciato a peregrinare per mezza Italia con fidanzata, anziana madre e figlie al seguito. Da sorvegliato speciale si era stabilito prima a Spoltore, in provincia di Pescara, quindi a Empoli (Fi), poco distante dalla casa della sorella e del cognato. Poi, radunate le sue preziose “masserizie”, si era trasferito a Brescia, in via Cave, al primo piano di una lussuosa villetta bianca di duecento metri quadrati con ampio giardino digradante, muretto in pietra, robusta cancellata e telecamere. Zona sontuosa, questa: d’altro canto, il pianterreno che veniva affittato a duemila euro al mese si trova ai piedi di una collina in cui le ville esclusive, quelle di proprietà della Brescia bene, pullulano. Letteralmente.

Nella cittadina lombarda ci lavorava pure, Maniero. Aveva aperto una ditta, la Cafegi (acronimo forse di nomi a lui cari?), e l’aveva intestata a Marta, madre delle sue figlie e sorella della sua prima compagna – la mamma, cioè, del primogenito di “Felicetto” -. Situata nella zona industriale e con filiali in giro per il Paese, fino alla fine del 2010 la Cafegi si è occupata di depurazione e trattamento delle acque. O così, almeno, riportavano i suggestivi testi stampati nelle brochure pubblicitarie: basta dare un occhio su Internet, infatti, per trovare notizie di tutt’altro tenore. Altro che acqua depurata: gli  affari della Cafegi di Marta Bisello & C. sas non erano così limpidi visto che poi, quando ha traslocato, i nuovi affittuari hanno dovuto far fronte alle lamentele di tanti clienti.

Con la partenza della famiglia Maniero, se n’è andata anche la Cafegi. Via da Brescia. In silenzio, così come erano arrivate. D’altronde è con il silenzio che si fanno gli affari migliori; perché, quando i rumori cessano, gli occhi si spostano altrove. Terminati perciò, a causa anche di problemi di salute, gli eccessi della sua ventennale vita da boss, da qualche anno l’uomo ha scelto il basso profilo. Arrivato quasi allo scoccare dei sessant’anni, racconta di lavorare dalla mattina alla sera e di tornare a casa stanco morto – più stanco di quando faceva il criminale – , afferma di avere diverse persone alle sue dipendenze e giura che, se potesse tornare indietro, non farebbe tutto ciò che ha fatto.

Mah. Di sicuro, la fiction in due puntate che Sky proporrà domani e lunedì prossimo (intitolata “Faccia d’angelo” con Elio Germano nel ruolo del protagonista), non lo mostrerà nella sua inedita veste di imprenditore e di buon padre di famiglia ma in quella, più stuzzicante, di boss; di Capo incontrastato dell’unica associazione criminale di stampo mafioso nata in territori dove di mafia non si era mai sentito parlare prima. Nonostante la mini serie sia tratta dalla sua autobiografia, “Faccia d’angelo” ha già fatto sapere di non gradire: “La mia vita non è quella del film, è stata peggio. I giovani non devono essere affascinati dalla malavita”, ha dichiarato, forse per ingraziarsi ancora una volta quella magistratura che, già in passato, ha dimostrato di credergli.

Monica Zornetta (Corriere della Sera, cronaca di Brescia, 11 marzo 2012)