Strage di Brescia. Maggi: “Io, vittima delle panzane di un ex amico”
29/02/2012Che cosa esplose veramente quella terribile mattina del 28 maggio 1974 a Brescia? Un ordigno composto da dinamite e gelignite, come avevano concluso i primi periti, Romano Schiavi e Alberto Brandone, e come aveva peraltro ambiguamente dichiarato il pentito Carlo Digilio (parlando di un “esplosivo di origine jugoslava”)? O si trattava invece di tritolo, circa un chilo, così come emerso nella successiva perizia stilata sullo studio delle carte? E la carica di tritolo, se di tritolo si trattava, era pura o miscelata con una percentuale di nitrato d’ammonio prendendo così il nome di “amatolo”?
La verità sulla strage potrebbe nascondersi proprio dietro al tipo di esplosivo utilizzato su quella piazza colma di lavoratori e di gente comune. Un materiale che ancora brucia e di cui, a oggi, non si è riusciti a conoscerne la natura né la provenienza. Ciò che si sa è che il suo impiego era militare. Basta. Il resto è avvolto dal buio più fitto.
Su questo punto – come ha ben compreso la Corte d’assise d’appello di Brescia accogliendo la richiesta di rinnovo del dibattimento proposta dai pubblici ministeri Francesco Piantoni e Roberto Di Martino – è invece più che mai necessario fare luce poichè proprio l’esplosivo potrebbe svelare quella che nelle scienze criminologiche viene chiamata “la firma dell’assassino”.
Tritolo, nitroglicerina, gelignite, plastico. Ma quella bomba che alle 10.12 ha spezzato la voce accorata del sindacalista Franco Castrezzati; quell’ordigno che ha interrotto le vite di otto persone innocenti e irreversibilmente ferito le esistenze di altre cento, potrebbe essere stata un’altra cosa. Potrebbe avere avuto una natura ancora diversa. E un nome differente. Vitezit 30, per esempio. Di questo esplosivo militare jugoslavo, costituito da una gelignite potenziata con una percentuale di nitroglicerina al 25% e caratterizzato da un intenso odore di mandorle, si era già parlato in passato, ma a collegarlo alle stragi di Milano e di Brescia è stato, per la prima volta, il giornalista Paolo Cucchiarelli nel documentatissimo libro “Il segreto di Piazza Fontana”.
Ma facciamo un passo indietro e spostiamoci nella provincia di Treviso dove, a seguito di una perquisizione della polizia negli uffici dell’editore Giovanni Ventura (dopo la strage alla Banca nazionale dell’Agricoltura), era stato recuperato un foglietto contenente alcune istruzioni per l’uso di determinati esplosivi. E l’esplosivo in questione era proprio il Vitezit 30, prodotto dalla Chemical Industry Slobodan Princip-Seljo di Vitez, in Jugoslavia, e confezionato in candelotti avvolti in una riconoscibilissima carta rosso mattone.
Di un esplosivo di origine jugoslava aveva poi parlato anche l’ex ordinovista friulano Vincenzo Vinciguerra, autore nel 1972 dell’attentato contro alcuni militari dell’Arma a Peteano, in provincia di Gorizia. Svelando l’esistenza di una cellula segreta di Ordine nuovo (una sorta di struttura stragista intimamente legata con apparati dello Stato e con gruppi di potere politico), responsabile di tutti gli eccidi a fini “destabilizzanti” a partire da piazza Fontana e fino a Bologna, Vinciguerra si era soffermato sulle confidenze fattegli da un camerata durante la comune latitanza in Cile. Pierluigi Pagliai, questo il suo nome, aveva parlato a Vinciguerra di un esplosivo scottante di cui era venuto in possesso: secondo il pentito, proprio per questo esplosivo – “che veniva dall’est, esattamente dalla Jugoslavia” – Pagliai sarebbe fuggito in Sudamerica.
E ancora. Un candelotto di Vitezit 30 era stato trovato a casa di Silvio Ferrari, il giovane di On saltato in aria a Brescia, pochi giorni prima di quel 28 maggio 1974, mentre, in sella alla sua Vespa, trasportava un carico di esplosivo. Ad accorgersi della presenza del Vitezit da Ferrari era stato l’allora giudice istruttore Giampaolo Zorzi.
Perché, dunque, non ipotizzare che quel giorno, su quella piazza della Loggia gremita di gente, fosse esplosa una carica di Vitezit 30 anziché una di tritolo?
Perché non è mai stata rispolverata la vecchia storia, riferita da Digilio, circa i rapporti tra gli ordinovisti veneti e gli ustascia (che proprio nella cittadina lombarda venivano addestrati durante il regime fascista)?
Ad essere notoriamente in rapporti con gli estremisti di destra croati, per esempio, era il veronese Marcello Soffiati, colui che, sempre secondo le dichiarazioni di Digilio, aveva portato a Brescia la valigetta contenente l’esplosivo. Un legame, il loro, rischiarato dalla tetra luce della rete Stay Behind, istituita dall’Alleanza atlantica per contrastare una possibile invasione dell’Occidente da parte degli eserciti del Patto di Varsavia. Un legame, tra On e gli ustascia, svelato anche dalla scoperta di numerosi “Nasco” (i nascondigli di armi ed esplosivi di Gladio, ndr) in comune.
Il Vitezit 30, insomma. L’esplosivo che probabilmente non doveva essere identificato. Non sarà forse per questo che, nell’immediatezza del massacro, si era provveduto a lavare la piazza con gli idranti e a recuperare dai cadaveri e dai corpi dei feriti i frammenti dell’ordigno?
Monica Zornetta (Corriere della Sera, Cronaca di Brescia, 22 febbraio 2012)