Maggi: “Io, medico e fascista, sono l’ultima vittima di Piazza Fontana”
23/11/2008Crisi a Nordest. Storie di operai
15/05/2010Quella condanna il prosindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, non se l’aspettava proprio. “Istigazione all’odio razziale”. Gentilini, il sindaco sceriffo classe 1929, l’avvocato alpino, l’ex balilla diventato leghista e reuccio della cattolicissima (e pruriginosa) Treviso, non pensava che stavolta la mannaia della giustizia atterrasse su di lui per quel suo modo “colorito” di esprimersi, nel caso in questione per le frasi pronunciate con il solito fervore il 14 settembre 2008 a Venezia, durante il tradizionale raduno della Lega nord. Quel giorno, sul palco tutto verde del Carroccio, aveva sbraitato le proprie idee sugli immigrati che delinquono e sulla possibilità di aprire moschee in Italia. La folla lo ascoltava attenta, annuiva, rideva, sventolava con vigore le bandiere padane, si spellava le mani a forza di applausi mentre lui, cappellino verde in testa e pollici all’insù, invitata il popolo padano ad allontanare dal proprio suolo etnie intere. “Basta islamici – urlava – chiudere gli esercizi commerciali degli stranieri, niente neri, gialli, marrone e grigi nelle scuole”. E i leghisti, in vistoso visibilio, giù ad applaudirlo.
Ma il giorno seguente il Procuratore della Repubblica di Venezia, Vittorio Borraccetti, aveva fatto scattare una denuncia ed ecco che, a poco più di un anno di distanza, il 26 ottobre 2009, ancora da Venezia arriva la stoccata. Il giudice per le indagini preliminari Luca Marini lo condanna per istigazione all’odio razziale ,a 4 mila euro di multa e al divieto di partecipare ad attività di propaganda elettorale per tre anni. Gentilini, spiega il giudice nella motivazione, cercava il consenso ad un programma di “sostanziale pulizia etnica, razziale e religiosa.. e lo ha fatto davanti a una folla plaudente, coesa, adesiva e pertanto suggestionabile, pronta all’accoglienza di un siffatto verbo non certo in metafora ma in concretezza”. Un bel colpo per uno che ha costruito il proprio carisma politico su esternazioni pubbliche che strizzano più di un occhio alla xenofobia e all’omofobia. Ad evitargli il carcere solo la fedina penale immacolata e la positiva attività amministrativa. L’inizio della sua carriera politica – e, secondo alcuni, del baratro in cui è precipitata la città – avviene con le elezioni amministrative del 1994. Ha 65 anni e riesce a spuntarla, anche se con pochi voti di scarto, sull’imprenditore trevigiano delle porcellane Aldo Tognana, candidato dalla coalizione Ppi-Pds.
Sulla massiccia poltrona di sindaco, al primo piano dell’elegante Cà Sugana, il palazzo comunale, l’ex alpino siederà per due legislature, fino al 2003. Poi, non più ricandidabile per legge ma ancora acclamato a gran voce dai cittadini, traslocherà sull’altrettanto nerboruta poltrona di vicesindaco (o prosindaco) dell’europarlamentare Gian Paolo Gobbo, da qualcuno considerato “il prestanome” di Gentilini. Una poltrona via l’altra, e in mezzo un’impressionante sequenza di slogan e azioni contro i migranti, gli omosessuali e i nomadi che hanno portato la città di Treviso ad assumere, nel sentire collettivo, un’identità estranea, votata alla fobica chiusura in se stessa e incline a violenti rigurgiti xenofobi. Basterebbe solo citare le bestemmie contro Allah e Maometto misteriosamente comparse l’anno scorso sulle serrande del centro islamico a Villorba, a pochi chilometri dal capoluogo, per farsene un’idea.
Tra un suo abbraccio cameratesco con i neonazisti di Forza nuova e un bisticcio con i parroci impegnati nell’integrazione, ha preso forma così l’immagine di città arrogante, intollerante, attaccata al suo sindaco come una cozza allo scoglio. Una Treviso all’avanguardia dei luoghi comuni del localismo più sterile e conservatore, ha scritto qualcuno; una Treviso, che però, non c’è. Ne è convinto il politologo Paolo Feltrin, docente all’università di Trieste, che nella cittadina veneta vive e lavora: “Tutto nasce dalla crisi della Democrazia cristiana, nei primi anni Novanta, e da ciò che è rimasto delle politiche italiane sul fronte dell’accoglienza di matrice cattolico-comunista. Treviso è stata la prima città del Veneto ad essere governata dalla Lega e la prima città ad aver attuato interventi energici per ovviare al degrado urbano prodotto dalle politiche lassiste degli anni Settanta e Ottanta. Gentilini in questo senso è un fenomeno: fin dall’inizio ha compiuto scelte che hanno fatto discutere, come togliere le panchine dai giardini pubblici, ma che sono state poi seguite da molte amministrazioni comunali di qualsiasi parte politica, penso a Padova, Venezia o Bologna. Senza saperlo, Gentilini ha disegnato un modello. “La politica a cui si rifà è quella inaugurata da Rudolph Giuliani a New York: “Tolleranza zero” verso chi non rispetta “l’ordine, la legge, la disciplina”. C’è da dire che il prosindaco è un vero genio della comunicazione: le spara grosse perché le televisioni e i giornali nazionali arrivino qui e puntino i riflettori su di lui. Quel che dice è irrilevante ma il mondo della comunicazione, con gli articoli folcloristici, fa il suo gioco. Lui e il suo partito usano un linguaggio dai forti toni xenofobi ma non atteggiamenti xenofobi: potrei dire che fino a oggi hanno predicato male e razzolato bene”.
Sarà. Ma il filo rosso – pardon, verde, e a tratti intensamente anticlericale – che attraversa i tre lustri di governo cittadino del Carroccio, e in special modo “gentiliniano”, sembrano rivelare una realtà diversa. E’ un filo che dal lontano 1994, anno dell’ordinanza con cui bandiva lavavetri e mendicanti dalle strade del Comune, ha visto lo “sceriffo”, nel 1997, togliere appunto le panchine dal giardino pubblico di fronte alla stazione ferroviaria per impedire agli extracomunitari di sedersi, nel 2002 rifiutare alla locale comunità islamica un’area pubblica per celebrare la fine del Ramadan (e, quando in soccorso dei migranti è arrivato Gilberto Benetton concedendo loro il Palaverde, lo zelante Senatore della Lega, Piergiorgio Stiffoni, notorio simpatizzante autoctono dell’estrema destra, ha invitato le autorità a controllare i documenti dei partecipanti alla festa) e nel 2005, sull’onda della psicosi kamikaze, vietare ai musulmani di girare con i caftani perché, ha motivato, “sotto può esserci un terrorista”. D’altronde nel 2001 gli immigrati avrebbe voluto schedarli “a uno a uno.. perchè portano ogni tipo di malattia: tbc, aids, scabbia, epatite.. », ma, poiché la legge non lo consente, nel 2002 li avrebbe vestiti “da leprotti per fare pim pim pim col fucile ». Tanto, per lui, “gli immigrati sono come il cancro” (2008). Ai suoi roboanti attacchi purtroppo non sono sfuggiti nemmeno i più piccoli: “Voglio eliminare i bambini degli zingari”, ha urlato a Venezia, l’anno scorso, al suo popolo padano. Ma, stavolta, all’intraprendente sceriffo non è andata liscia.
“Sono uno sempre pronto ad andare all’assalto e ad esporre il proprio petto mentre qualcuno è pronto a spararmi alle spalle”, ha detto a caldo, dopo la lettura della sentenza. E sugli spari alle spalle forse ha ragione. Dopo gli anni in cui, a sentire lui, lo avrebbero voluto “sindaco in numerose città d’Italia, della Francia, dell’Inghilterra, della Russia”, oggi, forse, questo anziano politico che riaprirebbe volentieri le case chiuse e accetta invece malvolentieri che “cani stranieri” passeggino lungo la centralissima Piazza dei Signori, è diventato un “impresentabile”. Eppure, se Treviso oggi viene considerata anche fuori dai confini nazionali una città fiera della stelletta razzista che porta appuntata al petto; se dal Qatar, dalla Gran Bretagna, dal Marocco, dalla Francia, dalla Germania, dagli Stati Uniti arrivano giornalisti e troupe televisive per registrare umori e malumori di questo controverso capoluogo di provincia, la colpa non è interamente di Gentilini.
“Certo che no, ma di chi lo ha votato”, risponde prontamente Lello Voce, professore di lettere al Liceo artistico di Treviso, poeta, scrittore, giornalista, musicista, performer. Quello, per intenderci, che l’anno scorso ha riunito nella “capitale” della “Marca gioiosa et amorosa”, a pochi passi dalla casa di Giovanni Comisso, diciassette scrittori e artisti del Nordest (da Marco Paolini a Tiziano Scarpa, da Mauro Covacich a Vitaliano Trevisan) per sfidare il razzismo del prosindaco con le sole armi della cultura e della tolleranza. “Treviso è xenofoba, ciò è fuori di dubbio. E qui la Lega nord è più estremista che altrove. Io lavoro anche in Friuli – è ideatore e direttore del Festival Internazionale di Poesia di Monfalcone, “Absolute Poetry”- : pure lì ci sono amministrazioni leghiste ma non il clima da isteria collettiva che troviamo qui….abbiamo una classe dirigente collusa con i neonazisti”.
“Ginnasta” della lingua nato a Napoli, residente a Treviso ormai dal 1989 (“sono arrivato pieno di emozione perché per me era la città dell’artista Arturo Martini e dello scrittore Ernesto Calzavara”), ironizza sulle differenti percezioni del “male” da parte dei trevigiani e dei napoletani. “A Treviso la percezione che si ha del razzismo è minore di quella che a Napoli si ha della camorra”. La xenofobia della città, secondo Voce, nasce da lontano, o meglio, da una condizione che oggi Treviso sente lontana: la povertà. “E’ una terra povera diventata ricca in pochissimo tempo e poi truffata da coloro che l’hanno tinta d’oro: la famiglia Benetton. E’ stata lei ad approfittare della natura calvinista della città, votata all’autosfruttamento, per far lavorare a ritmi serrati i cosiddetti terzisti (che operavano in casa, a cottimo): prima li ha costretti ad acquistare telati per produrre i capi, o parti di essi, griffati Benetton e poi, quando il mercato ha cominciato a girare in un altro modo, li ha abbandonati per volgere sguardo ed investimenti altrove”.
La verità è che i trevigiani “hanno una gran paura di perdere i privilegi economici che hanno conquistato ma non hanno sviluppato la cultura necessaria per gestire queste paure. Ecco che, in questo meccanismo perverso, si è inserita la Lega nord”. E l’opposizione? Gentilini sarà anche l’espressione dell’ideologia di una certa parte della città, ma ci sarà pure chi lo contrasta… “No – nicchia il professore poeta – a Treviso c’è una caricatura di opposizione che traccheggia con questioni secondarie, come l’introduzione dell’ora di religione musulmana a scuola, ma che non fa nulla in concreto. La sinistra che c’è qui ora dice: i leghisti fanno schifo perché parlano in dialetto. Ma non capiscono che è proprio qui che sbagliano, è qui che potrebbero trovare la loro forza perché il dialetto è una lingua, è ricchezza, è cultura e non dobbiamo lasciare questa battaglia nelle mani degli altri”.
Se Lello Voce sceglie ampie campiture di colori forti e a contrasto, Gianfranco Bettin usa lo sfumino per rappresentare una situazione che, a suo avviso, è “più in chiaroscuro”. Ormai non siamo più appiattiti su un’unica tinta, sostiene il sociologo veneziano, scrittore, ex deputato e oggi consigliere regionale dei Verdi: “Certamente Gentilini è molto popolare, non solo tra i leghisti, e lo è perfino in quegli aspetti che io considero più aberranti. Certamente sentimenti di xenofobia sono diffusi a Treviso, ma non tutta la città è così. Accanto a questa ve n’è un’altra, e non è la minoranza: è la Treviso trasversale che lavora all’integrazione più che alla denuncia, che è composta da associazioni cattoliche e laiche, dal sindacato, dagli immigrati stessi e, va detto, da singoli amministratori leghisti. Se in questi anni le istituzioni che stanno a capo della città hanno lavorato per esasperare i problemi trasformandoli in conflitti e strumentalizzando i dati sull’integrazione, la Treviso diversa si è mossa in modo opposto. Alcune isolate parrocchie, per esempio, si sono fatte carico di molti problemi, svolgendo un lavoro che sarebbe stato di pertinenza delle stesse istituzioni. Ci sono sindaci leghisti che si occupano concretamente di singole famiglie di immigrati: e sono gli stessi sindaci che magari, quando vogliono farsi sentire, alzano voci di protesta che echeggiano a toni “gentiliniani” ma che, e qui sta il bello, nella quotidianità parlano il linguaggio della solidarietà e della pacificazione.
“E’ chiaro – afferma Bettin, di cui è da poco uscito per Feltrinelli il libro “Gorgo. In fondo alla paura” in cui ricostruisce il bestiale assassinio di una coppia di anziani coniugi, nell’agosto 2007 a Gorgo al Monticano (Tv) per mano di tre immigrati, e poi il clima di paura e di indignazione della gente appena sopito dalla mano tesa della Lega, e il silenzio del governo – che, in un clima così conflittuale, il loro intervento concreto non viene valorizzato dalla politica perché dal punto di vista elettorale non paga. Circa il ruolo della sinistra, infine, devo dire che, a parte qualche buon sentimento messo in campo in questi anni, non è ancora riuscita a trovare una sintesi politica efficace. A questo punto spetta al tessuto sociale e civile cambiare la rotta”.
Un anno dopo il cenacolo in Piazza dei Signori, quasi in faccia al municipio leghista, il 44enne scrittore triestino Mauro Covacich è ancora convinto che l’abbinamento Treviso=razzismo sia più che altro un cliché e che non sia sufficiente una busta paga per cancellare le sensazioni di aperta ostilità. “Non importa che allo straniero si dia un sussidio, che qui trovino lavoro come operai: ciò che importa è che quando camminano per la strada vivono di continuo la sensazione di non essere accettati, non desiderati. Credo che solo per il fatto che all’estero continua a passare questa immagine di Treviso dobbiamo costringerci a fermarci e a ragionare. Le parole sono importanti: finchè ci sono persone, e non mi riferisco solo a Gentilini, che continuano a soffiare sull’odio, sulla paura, che autorizzano ciascuno, con il solo potere della propria brutalità verbale, a tirare fuori ciò che ha dentro e che magari fino a quel momento nemmeno riusciva a proferire, ecco, tutto il resto diventa poco importante. Lo diventa il sussidio, l’asilo nido, la casa. Non è necessario arrivare a essere colpiti con la spranga per ritenersi vittima della violenza, bastano le parole di tutti i giorni. “Treviso – continua lo scrittore che oggi vive a Roma – è passata da una società moderna improntata alla solidarietà e al mutuo soccorso di stampo cattolico a una società postmoderna uniformata agli standard dell’individualismo e dell’egoismo dove contano la villetta con il videocitofono, l’erbetta ben curata e poco altro ancora; dove l’altro, quando va bene, viene percepito come un intruso, quando va male, come un nemico”.
Se il musicista rock Ricky Bizzarro, da anni autore della pungente rubrica settimanale “Bizzarrie” sul quotidiano La Tribuna di Treviso è convinto che “noi trevigiani siamo tutti un po’ cripto-leghisti ma nessuno è xenofobo” e raccomanda “Stemo su coe recie (cioè, stiamo vigili), lo scrittore veneziano Roberto Ferrucci, tra gli intellettuali scesi in piazza dei Signori nel 2008, parla di un “analfabetismo di ritorno delle memorie”: “Oltre che xenofobo – spiega – il Veneto è la punta d’iceberg di un inquietante e pericolosissimo analfabetismo di ritorno delle memorie. Si sta affermando una classe politica, nella Lega in particolare ma non solo, che fa dell’ignoranza una bandiera, della volgarità un vanto, dell’egoismo un punto irrinunciabile. Quel motto “paroni a casa nostra” lanciato quasi due decenni fa e liquidato dalle forze democratiche di questo Paese come folklore o, al massimo, come protesta (ancora un anno fa, dopo le elezioni politiche di aprile, l’allora vice di Veltroni, Franceschini, definiva il successo della Lega come un voto di protesta!), oggi è messo in pratica nel modo più becero, intollerabile, indecente, autoritario. Ha ragione il poeta Andrea Zanzotto: la Lega è come la peste, e Treviso ne è la sua patria”.
Anche Bruno Martellone, che di mestiere fa l’avvocato degli immigrati nei pressi del Duomo, è convinto, anzi straconvinto, che la città sia razzista. Anche se, lo ammette, oggi non è facile sostenerlo. Perché? “Perché i germi del razzismo e della xenofobia sono stati inoculati e hanno agito in una larga parte della popolazione diventando senso comune”. Martellone, preparato e affabulatore come solo un buon “azzeccagarbugli” sa essere, traccia cenni di storia dell’immigrazione a Treviso, dai vu cumprà arrivati negli anni Settanta alla conformazione geo-economica della regione che ha spinto i migranti ad insediarsi in province dove primeggiano i settori del manifatturiero e del commercio. Tra queste, Treviso. “I primi ad arrivare sono stati i marocchini, impiegati in micro imprese individuali, per esempio edili, con un padrone e qualche dipendente, e poi i senegalesi, specie di etnia wolof e tradizione sufista: parte di loro è andata a lavorare nelle fabbriche e parte, quella di origine nobile, nel commercio ambulante”. Quando arrivano nella Marca, però, gli immigrati trovano una società culturalmente arretrata, impreparata ad elaborare il fenomeno. “D’altronde – afferma Martellone – la città ha sempre avuto uno o più quartieri entro cui confinare “i diversi”, penso a San Liberale dove, poco meno di quarant’anni fa, erano stati stipati gli immigrati di origine italiana, provenienti soprattutto dal Mezzogiorno e, con loro, i cosiddetti “reietti”: prostitute, criminali, disadattati, zingari di etnia sinti”.
Ma i ghetti oggi non esistono più. Treviso non è come Padova o Mestre. Non ci sono zone isolate dal contesto, dove i cittadini hanno timore ad addentrarsi: gli stessi immigrati vivono un po’ in tutta la provincia perché, insieme alle loro famiglie, vanno dove c’è lavoro. Tuttavia, l’insofferenza sembra essere in continuo aumento: “C’è stato un susseguirsi di leggi e sentenze della Corte di Cassazione che hanno reso più complesso il rapporto autoctoni-migranti. La ciliegina sulla torta, poi, è stata la serie di ordinanze emanate da sindaci del centro destra veneto che celano, dietro la foglia di fico della sicurezza e dell’integrazione, degli intenti discriminatori”.
Vale la pena di ricordarle queste ordinanze, tutte datate 2007.
A Cittadella, nell’Alta Padovana, il primo cittadino Massimo Bitonci, dallo scorso anno anche onorevole del Carroccio, aveva vietato la residenza nel suo comune a chi non era in grado di dimostrare di potersi mantenere con un reddito minimo, fissato a 5 mila euro all’anno. A seguito di questo provvedimento, emesso per proteggere il Veneto “invaso da bande di delinquenti”, contro il sindaco era stata aperta un’indagine, poi archiviata. A Romano d’Ezzelino (Vicenza) il sindaco forzista Rossella Olivo aveva deciso di “difendere i cittadini” del suo Comune firmando una ordinanza che escludeva i bimbi extracomunitari dal bonus scuola. Il suo zelo si era concentrato anche sui futuri sposi. Infatti, nel caso una coppia di immigrati extracomunitari avesse espresso il desiderio di sposarsi proprio lì, nel territorio reso immortale da Dante nella “Divina Commedia”, la “sindaca” azzurra si sarebbe messa di traverso: “Se ho il dubbio che servano solo ad ottenere la cittadinanza, non li officio e chiamo il 113». Due anni prima la stessa aveva pensato di devolvere i pacchi dono natalizi della Caritas ai poveri ma solo se di nazionalità italiana.
A Teolo, ancora nel Padovano, il sindaco di Alleanza nazionale Lino Ravazzolo aveva deciso di negare la propria firma al decreto che concede la cittadinanza nel caso il richiedente non avesse imparato bene l’italiano e la Costituzione
“Ma anche a Treviso, specie nella provincia, sono stati emessi provvedimenti discriminatori – continua Martellone – : penso al Comune di Villorba dove si sono applicati parametri di metratura doppia, negli alloggi per immigrati, rispetto a quelli vigenti a livello regionale. E c’è pure un vigile urbano delegato dal comune ad accertare eventuali infrazioni… Se non è discriminazione questa! Penso che siano molte le amministrazioni di centro destra che non conoscono o non vogliono conoscere le problematiche legate all’immigrazione: e i molti bandi pubblici con requisiti ad hoc, formulati cioè appositamente per rimarcare diseguaglianze, lo dimostrano”.
Villorba è un paese dell’hinterland. Ha 18mila abitanti sparpagliati nelle diverse frazioni, una grande zona industriale, lo stabilimento della Benetton nella frazione di Castrette che dà lavoro a 900 dipendenti e produce ogni anno 150 milioni di capi d’abbigliamento e, infine, il Palaverde, il palazzetto dello sport di proprietà della famiglia Benetton dove giocano le squadre Sisley Volley e Benetton Basket. Da qualche anno c’è pure un centro islamico-moschea la cui apertura, secondo alcuni leghisti, equivale a uno schiaffo in pieno viso alla cattolica e timorata Treviso. Così, lo scorso anno, l’amministrazione comunale ha deciso di replicare all’”affronto musulmano” con “la sola spada della legge italiana” e ha inviato per ben tre volte in un giorno solo i vigili urbani ad ispezionare, costringendo i musulmani a pregare all’aperto, in un parcheggio.
“Ma mi faccia il piacere!”. Il sindaco Liviana Scattolon sgrana gli occhi azzurri e con una smorfia di disappunto scuote la testa: “La provincia di Treviso non è xenofoba e quindi questi discorsi non hanno senso. Tutti coloro che sono venuti qui per lavorare – e sottolinea “lavorare” – non sono stati cacciati. Anzi”. La bionda signora, ex assessore di Gentilini, dimostra di avere imparato bene la lezione della casa madre, la Lega: “Non sono d’accordo nel dare accoglienza a chi viene nelle nostre città per delinquere (ma scusi signora: chi vuole invece accogliere i delinquenti? ndr), siano essi extracomunitari, comunitari o italiani. A questi signori chiediamo il rispetto delle regole così come lo chiediamo a tutti i nostri cittadini”.
Sul fronte delle ordinanze la risposta è telegrafica: “Ho fatto riferimento a una legge regionale sull’edilizia residenziale. Non l’ho mica inventata io! E per farla rispettare certo che facciamo i controlli, sennò sarebbe abuso d’ufficio”. E come la mettiamo con la moschea (o centro islamico che dir si voglia)? La comunità marocchina trevigiana aveva acquistato un capannone nella zona industriale per ospitare le preghiere e le feste musulmane, Ramadan compreso. Ma il Comune aveva sbarrato loro la strada ricordando, per bocca anche dei solerti vigili urbani, che la destinazione d’uso originaria (industriale o commerciale all’ingrosso) non poteva proprio essere cambiata. Per raccontare la lunga e spinosa querelle lo scorso anno era volata a Treviso addirittura l’emittente satellitare araba “Al Jazeera”, accolta, com’era prevedibile, non proprio con il sorriso sulle labbra dai cittadini. “Questi signori col turbante – aveva spiegato un trevigiano “Razza Piave” alla giornalista della tv araba – se vogliono integrarsi debbono cominciare a rispettare le regole che tutti rispettano: ad esempio se non si può pregare in un capannone non si prega punto e basta…se non c’è terreno disponibile per il culto si va altrove, punto e basta senza rompere tanto le palle ai laboriosi cittadini. I trevigiani si son fatti una certa idea circa la vera natura dell’Islam, e quando Giancarlo Gentilini si espone a riguardo, sono praticamente sempre compatti e d’accordo con le sue posizioni che trovano conferma in molte altre realtà della provincia, della regione e del Paese”.
“Insomma, la moschea non si può fare – ribadisce la Scattolon -. Non è possibile cambiare la destinazione d’uso del capannone: i musulmani hanno pure presentato due ricorsi al Tar, perdendoli entrambi”.
Dai toni è chiaro che la questione è tutt’altro che risolta e le parole che l’imam della comunità marocchina trevigiana pronuncia, lo confermano. “La Scattolon non ha detto la verità: lei non ha parlato dell’articolo 31 della legge 383 del 2000 che prescrive che le sedi delle associazioni culturali e di promozione sociale iscritte all’albo, come è la nostra, sono compatibili con tutte le aree. Non serve più cambiare la destinazione d’uso”. L’imam, Youssef Tadil, 41 anni, presidente del Consiglio islamico provinciale e rappresentante veneto dell’Umi, l’unione dei musulmani d’Italia, è a Treviso dal 1989. Sposato, è padre di tre figli. E’ calmo, sorridente e prudente ma quando si parla della moschea il suo viso si tende un po’. “E’ vero che abbiamo fatto ricorso al Tar due volte e che per due volte abbiamo perso ma non per i motivi che adduce la signora Scattolon: la prima volta perchè il capannone non aveva l’agibilità, la seconda perché non conoscevamo l’esistenza della legge 383. Ora ci siamo messi a posto, nel 2005 abbiamo fatto appello e siamo in attesa di una risposta. Intanto abbiamo aperto il centro”. Quello dei musulmani, spiega l’imam, non è un gesto di sfida ma è l’espressione della volontà di lavorare insieme per l’integrazione.
Chi definisce Treviso una città razzista non lo trova per nulla d’accordo: Youssef preferisce parlare di ignoranza di una parte della città. “In tutta la provincia i musulmani sono 36mila e posso capire che una parte dei trevigiani sia spaventata da una crescita così massiccia, avvenuta peraltro in breve tempo. Questa parte preferisce starsene chiusa in sé stessa, non rapportarsi con noi, ci rifiuta. A queste angosce ha subito prestato il fianco la Lega, accanendosi in particolare contro la comunità musulmana e impostando su questi presupposti di violenza, specie a Treviso, la propria politica. “Io non ce l’ho con Gentilini – continua la guida spirituale della comunità marocchina -: lui è il primo a darci gli spazi per pregare e la scuola per i nostri ragazzi, ma ce l’ho con la gente che lo plaude”. E, per portare un esempio della disponibilità del discusso prosindaco, ricorda che nel febbraio scorso, in occasione dei funerali di una giovane donna trevigiana massacrata insieme alla figlioletta dal compagno nordafricano, Gentilini l’aveva avvicinato e, sotto voce, lo aveva rassicurato: “Tenete duro, ragazzi. Se avete bisogno di qualcosa venite da me”. Ecco, io penso che Gentilini usi un doppio linguaggio: uno per parlare con i cittadini e ai comizi leghisti, l’altro quando deve parlare con noi”.
Abdallah Khezraji è uno di quelli che non stanno mai fermi. Titolare di “Hilal”, un circolo culturale che propone cucina etnica ma anche corsi di lingua araba, danza del ventre, viaggi organizzati (l’anno scorso pure una festa per gay e lesbiche), è coordinatore di Cittadinanza attiva, tetto virtuale sotto cui trova dimora una quarantina di associazioni di tutte le etnie che operano nella provincia di Treviso. Non bastasse questo, è l’unico straniero a comporre il direttivo del Coordinamento del volontariato ed è uno dei membri della commissione giovani dell’associazione “Seconda generazione”. “A loro dico sempre: dovete pensare da seconda generazione – esordisce – perché non siete migranti ma siete italiani. Mi crede che quando porto in Marocco mio figlio, che è nato in Italia, dopo qualche giorno mi chiede spazientito: “Papà, ma quand’è che torniamo a casa nostra?”.
Abdallah ha 42 anni, ama ridere, bere vino, ascoltare musica e viaggiare. In Italia dal 1990, ha due figli di dieci anni, gemelli. Prima di impegnarsi con Hilal ha fatto il mediatore culturale, ha collaborato con le scuole e, per un anno, anche alla realizzazione di uno studio sulle comunità etniche insieme alla Fondazione Benetton e al sociologo Ulderico Bernardi. Poi ha partecipato alla realizzazione di un filmino intitolato “Amen” con Marco Paolini e gli studenti di una scuola media della provincia. “Era per sensibilizzare sulla religione”, spiega, mentre sorseggia il suo bicchiere di vino bianco.
Treviso, dunque, la conosce bene. “E posso assicurare che non è xenofoba: la sua anomalia dipende dal fatto che il progresso tecnologico raggiunto in questi anni non viaggia di pari passo con quello politico e culturale”. E che la città soffra di una forte discrasia lo hanno dedotto anche quelli dell’Udami, l’Unione democratica marocchina italiana: “Due anni fa erano venuti qui mossi dal pregiudizio che Treviso fosse intollerante, volevano vedere come viveva la comunità marocchina, se fosse vittima di pregiudizi e discriminazioni. Beh, devo dirvi che prima di andare via ci hanno detto che la comunità marocchina di Treviso è quella che, in Italia, vive meglio. Le condizioni di vita sono buone, c’è lavoro, non si sono mai verificati episodi di violenza razzista, c’è la libertà di culto, ci sono quattro moschee. Ciò che arriva fuori, all’estero, non corrisponde al vero. E lo hanno capito anche i giornalisti del New York Times e della Bbc, arrivati qui con lo stesso pregiudizio e pure loro ripartiti con lo stupore negli occhi per l’alto tasso di integrazione osservato”.
Se qui si stesse davvero male, sostengono in molti, non ci sarebbe questa grande presenza di immigrati: nel 1990 nell’intera provincia erano in 2 mila, nel 2007 sono balzati a 87.976 per arrivare, nel 2008, a quota 96mila e 127 su un totale di oltre 880 mila residenti. A leggere le previsioni della Caritas, responsabile ogni anno di un rapporto sui migranti, il numero è destinato a crescere ancora, anche se di poco a causa della difficile congiuntura economica. “Io non amo parlare di integrazione ma di rapporto tra città e immigrati – continua Abdallah -. La città non è solo Gentilini e, da quel che capisco, la politica locale oggi non vede l’ora di scaricarlo. Ci sono parroci sensibili: uno su tutti don Aldo Danieli che nel 2007 ha messo a disposizione dei musulmani l’oratorio della parrocchia di Paderno di Ponzano, vicino a Treviso, per la preghiera del venerdì, subendo per questo un energico richiamo da Curia e Vescovo oltre alle proteste di molti parrocchiani; c’è qualche intellettuale, c’è il sindacato. Oggi, al di là di tutte le battaglie buone e meno buone, anche noi immigrati dobbiamo fare i conti con la crisi: so che da qualche mese partono ogni settimana da Genova, per il Marocco, seicento furgoni che trasportano merce destinata alla vendita. Gli autisti sono miei connazionali in difficoltà economiche. Cominciano così e poi, se le cose non cambiano, un po’ alla volta fanno ritorno al loro Paese”.
“E’ vero – conferma don Bruno Baratto, vicedirettore della sezione pastorale della Diocesi di Treviso e relatore regionale del Dossier immigrazione della Caritas – la crisi sta cambiando la vita degli immigrati anche a Treviso”. A risentirne, spiega, è soprattutto l’industria manifatturiera che negli ultimi anni ha ricercato nuovo personale straniero da assumere. I non italiani sono i primi a venire sacrificati dai datori di lavoro veneti: la tipologia di inquadramento spesso precaria, la qualificazione professionale medio-bassa e, in alcuni casi, i pregiudizi che rimangono radicati negli imprenditori li rendono i più esposti. Nella Marca sono impiegati 65 mila lavoratori stranieri ma per quasi 800 il 2008 si è chiuso con un saldo negativo. Secondo il rapporto della Banca d’Italia sull’economia veneta, su 115 mila posti di lavoro persi in tutta la regione nei primi sei mesi del 2009, 1/3 è immigrato: si tratta di una perdita non da poco se pensiamo che, da soli – dati riferiti al 2008 -, gli immigrati contribuiscono per l’11,6% alla creazione del Prodotto interno lordo della regione (147,9 miliardi di euro, pari al 9,4% della ricchezza nazionale). In quanto alla provincia di Treviso, che vanta un Pil complessivo di 23,7 miliardi di euro, il lavoro straniero produce il 13% della ricchezza, pari a 3 miliardi di euro.
Non va inoltre dimenticato che qui vive il maggior numero di minorenni stranieri di tutto il Veneto: 25.500, il 26,5% rispetto al totale degli immigrati; e che nell’anno scolastico 2008-2009 il numero di studenti stranieri iscritti ha sfiorato quota 17.500, più del 13 per cento del totale degli alunni. “Tra gli adulti, chi versa in maggiore difficoltà cerca di risparmiare quel che può facendo rientrare la famiglia al Paese d’origine, diluendo il ricongiungimento famigliare o ritardando il rientro dalle ferie. Le previsioni – osserva ancora il responsabile migranti della Caritas – sono comunque state smentite. Entro fine anno ne arriveranno ancora di stranieri, si supererà la quota 500 mila, e si insedieranno con ogni probabilità, come già accade, nelle due grandi aree a maggiore industrializzazione della provincia: l’Opitergino e la Pedemontana.
“In quanto alla presunta xenofobia dei trevigiani, direi che è più un sentimento amplificato dai media che qualcosa di diffuso capillarmente. L’immagine di città ostile agli stranieri è stata voluta da alcuni rappresentanti delle istituzioni e ha attecchito in una parte della popolazione. A Treviso non abbiamo grandi concentrazioni di immigrati come invece si registra in altre realtà venete: la loro presenza qui è diffusa, spalmata su tutto il territorio proprio perché gli insediamenti produttivi non sono concentrati ma abbastanza “polverizzati””. La maggiore preoccupazione di don Bruno è che la crisi economica possa acuire i conflitti: “Se prima i trevigiani riuscivano a convivere con gli immigrati grazie a due mercati di fatto paralleli, quello del lavoro e quello della casa, ora vi è la possibilità che le due forze entrino in competizione e che sfocino in seri conflitti”.
Un’ansia, la sua, che non viene condivisa da Paolo Feltrin (“Gli immigrati vanno a coprire le posizioni basse cosicché nessuno li sente in concorrenza”) ma che viene invece sposata in pieno da don Giuliano Vallotto, robusto prete di montagna: “E’ la crisi che potrebbe mandarli via, non le politiche xenofobe: queste hanno il solo scopo di procrastinare un fatto che è nella natura stessa delle cose”. E ciò che è accaduto nei giorni scorsi in provincia di Padova – dove un’azienda ha deciso di chiudere i battenti mettendo in cassa integrazione straordinaria tutti i 24 dipendenti per riaprire poco dopo con un nuovo nome e con soli dipendenti dell’est Europa, tutti con contratti interinali – potrebbe essere il prodromo di nuovi allarmanti scenari.
Don Giuliano Vallotto è uno di quei religiosi che non hanno paura di parlare né di agire. Da anni vive con alcuni giovani immigrati in una casupola a Cavaso del Tomba, nella pedemontana trevigiana, con molti libri e poche comodità. Nel 1986, in servizio alla locale Caritas dopo anni di missione in America Latina e Tunisia, ha partecipato alla conferenza nazionale di preparazione della legge Foschi, la prima in Italia sull’immigrazione, e poi, a livello provinciale, ha lavorato per creare una realtà laica che oggi, purtroppo, non esiste più: il coordinamento Fratelli d’Italia, concepito per aiutare la società a comprendere il cambiamento in atto e per consentire agli immigrati, allora solo vu cumprà senegalesi e colf filippine, di organizzarsi e di sentirsi coinvolti come cittadini. “Già allora la Liga Veneta portava avanti una battaglia contro gli stranieri: alla fine degli anni Ottanta aveva accusato la Caritas e il coordinamento di promuovere l’immigrazione clandestina. Noi li abbiamo portati in Tribunale, loro se la sono cavata con un patteggiamento della pena. Abbiamo fatto anni di battaglie, anche e soprattutto insieme alla società civile di Treviso: è grazie a lei se qualcosa è stato fatto in questo territorio dove la cultura e dunque la capacità critica continuano a latitare”.
E i sindacati e il mondo dell’impresa? “Sì, ci aiutano”. E la Chiesa cosa fa? La risposta del sacerdote non tarda ad arrivare. Ma è intrisa di desolazione. “All’inizio la chiesa era schierata con i poveri. Oggi, invece, la propaganda martellante dei media in senso anticomunista ha attecchito nei giovani sacerdoti e, sconforta dirlo, su queste questioni è calato il silenzio. Io sono uno di quei preti che un tempo chiamavano “rossi” o “comunisti”: non ho paura di parlare e mi dispiace che Monsignor Andrea Bruno Mazzoccato (vescovo di Treviso fino al settembre scorso) fosse considerato dalla Lega “un amico vicino ai loro princìpi” tanto da farli più volte dichiarare: “E’ uno dei nostri”. Penso che in realtà il Vescovo non fosse amico loro ma che, in questi anni, la loro convinzione sia stata avvallata da una sua debolezza: quella di non aver preso una posizione pubblica sul problema, tanto che la gran parte degli immigrati lo ha sempre sentito distante”.
Anche il sindacato è un luogo dove le cose si possono osservare da un punto di vista privilegiato. Si osservano e si vivono. Come accade a Rau Georghe Geani, 37 anni, romeno (“ma di Piatra Neamt, vicino alla Moldavia: siamo i polentoni della Romania” si schernisce), sindacalista della Filca Cisl di Treviso da un anno e mezzo. Troppo poco, spiega, per avere il polso della situazione, ma abbastanza per capire che Treviso non è affatto una città razzista. “Ci sono immigrati che lo pensano, questo è vero, ma non perché vengono effettivamente discriminati quanto perché hanno un loro pregiudizio e interpretano male le parole che gli vengono dette. Certo, ci vuole il pugno di ferro perché siamo in tanti, però se uno lavora e si fa i fatti suoi…”.
Rau, unico migrante sindacalista a tempo pieno di tutta la provincia, dice che i problemi per gli stranieri che lavorano, specie nel suo settore, l’edile, sono parecchi: “E possiamo racchiuderli tutti nello sfruttamento del lavoro nero, presente sotto molte forme, dai contratti di lavoro falsi, alle buste paghe false e molto altro ancora. Io stesso ne sono una vittima: dopo sette anni di lavoro qui a Treviso ho scoperto che il mio datore non mi aveva pagato né assegni famigliari né contributi. La ditta poi, che risultava essere di Bagheria, in Sicilia, nemmeno esisteva. Situazioni come la mia sono frequenti tra i lavoratori stranieri, ma a meno che non siano loro stessi a farsi coraggio e a denunciarlo, noi difficilmente riusciamo a venirne a conoscenza, specie quando giriamo per i cantieri”.
Ha scelto invece di spostarsi a Padova, dove è docente di Sociologia dei Diritti umani e dove tiene famiglia (“ho una moglie tedesca e tre figli.. il quarto è in arrivo”), Khalid Mohammed Rhazzali, nato 34 anni fa a Rabat, in Marocco. Arrivato giovanissimo in provincia di Treviso al seguito dei genitori, Khalid è oggi una delle menti più brillanti della seconda generazione di migranti marocchini in Italia. E’ un ricercatore pluripremiato presso il dipartimento di Sociologia della facoltà di Scienze politiche, di cui a breve l’editore Franco Angeli pubblicherà il lavoro, “L’Islam in carcere. L’esperienza religiosa dei musulmani nelle prigioni italiane”. Conosce molto bene la provincia di Treviso, dove ha frequentato il Liceo scientifico, la parrocchia di don Giuliano e dove ancora vivono i genitori e i fratelli.
“A mio avviso, più che razzista, è una città dalle tante contraddizioni. La Lega lì ha un grande seguito non solo perché fa leva sulla questione dei migranti ma soprattutto perché continua a cavalcare l’onda del federalismo e si considera un partito “della gente”. La Lega è più attenta e cerca di “valorizzare” alcune competenze che emergono sul territorio e che i partiti tradizionali ormai non riescono più a vedere. Così, cittadini come il medico di famiglia, il piccolo imprenditore, lo studente, l’operaio di origini marocchine che vorrebbero essere inclusi in quei processi di partecipazione politica attiva/passiva, trovano spazio solo se riescono ad istituire una lista civica o se aderiscono al movimento padano. È chiaro però che quando si accede al partito leghista, si rischia di schiacciare la dimensione della cittadinanza partecipata e si finisce forse per mettere in pratica il solito populismo e le retoriche del “popolo padano”. E’ buffo – spiega questo giovane studioso che, di tanto in tanto, si diverte a intercalare il discorso con parole in dialetto padovano – che sia proprio la Lega a portare avanti quei temi che, in realtà, dovrebbero essere patrimonio genetico della sinistra. Ed è buffo che sia proprio il Carroccio a riempire il vuoto lasciato da altri soggetti, ad esempio i sindacati.
“A Treviso si amplifica una schizofrenia interna alla Lega stessa. Quando il discorso politico viene applicato alla quotidianità delle cose emergono i paradossi: come quello del trevigiano che vota Lega ma che ha in casa la badante moldava o come il leghista della provincia che lavora gomito a gomito, e con soddisfazione, con l’operaio immigrato. Il problema è che si utilizzano registri diversi a seconda dei contesti. Quando si grida al rispetto delle regole da parte degli immigrati, in quanto “ospiti”, ci si chiede: quali regole? Forse ci si riferisce a quelle che gli autoctoni non vogliono più rispettare. Provvedimenti come lo scudo fiscale, la depenalizzazione del falso in bilancio e il piano casa, tanto per fare qualche esempio, non riguardano i nostri extracomunitari; non parliamo poi della recente regolarizzazione delle collaboratrici domestiche che ci mette in seria difficoltà quando vogliamo spiegare agli stranieri (che hanno passato parte della loro vita clandestina presso famiglie italiane) che per integrarsi devono rispettare le regole.
“Treviso al mondo conta davvero poco – conclude Khalid – anche se le sue industrie e le sue marche sono assai celebri. È una realtà molto dinamica e vivace che vede però, nelle sue relazioni con il mondo, soltanto l’esportazione delle sue opere materiali. Secondo me, è troppo poco ciò che continua a chiedere a se stessa”.
In conclusione, più che xenofoba, Treviso sembra dunque essere una piccola città molto, troppo chiusa, dove l’ignoranza dei concetti di tolleranza e rispetto è diffusa. Il razzismo attribuito alla cittadina si ferma in realtà all’adozione pedissequa di un linguaggio duro, aspro, intollerante verso uno straniero inteso come estraneo, un diverso di cui nulla si vuole sapere. Un razzismo, insomma, più delle parole che dei fatti, figlio di una società in cui il denaro sembra essere la sola ricchezza. Ma la città, se vuole cambiare veramente, farebbe bene a ricordare quanto, già nel Settecento, scriveva il filosofo Giambattista Vico: “Nessun popolo può permettersi di essere ricco e ignorante per più di una generazione”.
Monica Zornetta (Galatea, european magazine, dicembre 2009)