Inediti. Vichy, il carabiniere che salvò 3000 ebrei
21/02/2015L’intervista a Yolanda Villaluenga, autrice di “¿Documentos robados? Franco y el Holocausto”,
06/06/2015“Sei vuoi andare veloce, corri da solo. Se vuoi andare lontano, corri insieme a qualcuno”, recita un proverbio keniota, e chissà se prima di unire le forze per fondare, alla fine degli anni Ottanta, a Venezia, il poliedrico laboratorio Tamassociati, gli architetti “utopisti” Massimo Lepore, Raoul Pantaleo e il “nativo” londinese Simone Sfriso, allora poco più che ventenni, avevano pensato a quelle parole.
Probabilmente sì. E correndo insieme, dopo la laurea allo Iuav, e faticando, e talvolta fermandosi un po’, giusto il tempo di riprendere fiato, sono arrivati lontano. Molto lontano. In Uganda per esempio, nel cuore dell’Africa, dove dall’anno scorso sono al lavoro insieme con un piccolo studio di architetti locali per realizzare un grande “sogno”: quello della famosa regista e sceneggiatrice indiana Mira Nair per i giovani cineasti del Continente nero.
Si chiama Maisha Film Garden – in cui maisha sta per “vita”, in lingua swahili – ed è un solido complesso costruito su una collina verdissima che domina Kampala, la capitale, tornata a nuova vita negli anni Ottanta dopo le gravi ferite inferte dall’esercito tanzaniano per demolire il regime di Idi Amin Dada.
E’ il fiore all’occhiello del Mira Nair – Maisha Film Lab New, la ong creata nel 2004 dalla regista dei premiati “Monsoon Wedding” e “Amelia” per sostenere i filmmakers emergenti dell’Africa orientale; a realizzarlo in mattoni d’argilla autoctona sono lavoratori del posto, i quali grazie ad esperienze come questa imparano un mestiere che permette poi loro di dare vita ad una attività in “proprio”.
“Per noi costruire è una missione sociale e l’architettura è un’arte sociale – racconta dal suo ufficio a pochi passi da Campo San Barnaba Simone Sfriso, con i suoi 48 anni il più giovane dei “senior architect” Tam – e dunque deve rispondere ai criteri di funzionalità, economicità, durevolezza, facilità di manutenzione e, non ultimo, di eticità, anche nella scelta dei materiali. A Kampala, per esempio, abbiamo proposto di usare mattoni fatti a mano e cotti in forni locali: quel territorio dispone di quantità immense di argilla e dunque, ci siamo chiesti, perché non incentivare la produzione di mattoni anziché utilizzare il cemento?”.
L’incredibile potenza dell’Africa, per la verità, i fondatori di questo studio con filiali a Bologna e Parigi la conoscevano già. Ben prima dell’avventura ugandese. Dagli inizi del 2000, infatti, hanno volato tra il Sudan, la Repubblica centrafricana e la Sierra Leone per progettare edifici essenziali al lavoro dei medici di Emergency. Hanno costruito ospedali e ambulatori da campo, cliniche pediatriche e un centro di cardiochirurgia, il Salam, all’avanguardia dal punto di vista tecnico ed estetico, in un luogo difficilissimo come Khartum, la capitale del Sudan teatro di guerre, di periodiche carestie e dei pesanti movimenti di massa dei profughi. “Volevamo costruire un centro di cura in cui ciascuno di noi (o dei nostri cari) non avesse alcun problema a farsi ricoverare”, è stato il loro obiettivo.
Sebbene in condizioni estreme, sotto ogni punto di vista, hanno messo al primo posto – qui come in Senegal, in Nicaragua, in Medioriente – le materie prime locali, le tecniche di costruzione tradizionali e il rapporto armonioso degli edifici con il paesaggio circostante, tanto da arrivare a edificare, come è accaduto a Port Sudan, una clinica intorno a un secolare baobab.
Fondato nell’ambito dell’Associazione Utopica European Architects Network, negli anni lo studio si è ingrandito con l’arrivo dei “junior” Laura Caldelpergher, Emanuela Not, Enrico Vianello e Marta Gerardi, e così pure il catalogo dei lavori, ampliato con la progettazione di scuole, villaggi a misura d’uomo e di natura, istituti di credito “etici”, piazze, un centro di formazione ricavato in un capannone industriale fino agli esperimenti con il cohousing, il nuovo modo di abitare di impronta anglosassone.
“Le fasi di progettazione e di costruzione, come è successo nei due progetti di cohousing a Treviso e a Bologna – continua Simone Sfriso – , devono essere in grado di coinvolgere le persone in un processo creativo e responsabile e, allo stesso tempo, sono tenute al massimo rispetto dell’ambiente. Per noi è molto importante creare pensando a coloro che vivono in situazioni difficili, come è successo appunto in Africa, ma non solo: anche nel nostro Paese, con i poliambulatori costruiti per il Programma Italia di Emergency, e come accadrà prossimamente in Afghanistan”.
Nulla a che vedere con la filosofia delle archistar, insomma. “No, appunto. Il nostro modo di intendere l’architettura non è, né mai sarà, il loro: siamo per una architettura equa, che segue la chiara filosofia del low cost – high value, cioè della riduzione degli sprechi a favore della qualità”.
Una progettazione semplice, dunque, ma non banale, dove la bellezza viene riconosciuta come un bisogno umano fondamentale, strettamente legato con la dignità della persona e del territorio.
Per l’attenzione alla cooperazione e al sociale negli ultimi anni Tamassociati si è aggiudicato premi e riconoscimenti internazionali: tra questi l’ArchitekturXport Detail Prize 2009; lo Ius-Capocchin e lo Zumbotel Group Award per la costruzione dell’ospedale pediatrico più sostenibile al mondo; il premio nazionale quale miglior architetto del 2014; il Curry Stone Design Prize per le migliori realizzazioni di Social design in Africa e l’ambitissimo Aga Khan Award for Architecture per l’ideazione, la costruzione partecipata e l’impatto eco-sociale dell’ospedale Salam.
Monica Zornetta (Left, n.16, 1 maggio 2015)