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23/01/2020«Di due fatti sono da sempre convinto: la strage di via d’Amelio è stata una cosa “altra” rispetto a Capaci e la “trattativa” Stato-mafia, come viene chiamata, non è stata altro che un’interpretazione scorretta della ragion di Stato secondo la quale il raggiungimento di un grado di convivenza con Cosa nostra avrebbe riportato la serenità nel Paese».
Il magistrato siciliano Alfonso Sabella, 57 anni, per sei nel pool antimafia di Palermo guidato da Giancarlo Caselli, fratello di un altro pubblico ministero in prima linea contro Cosa nostra1, non ha molti dubbi. Lui, i mafiosi più spietati, quelli di Corleone, San Giuseppe Jato e Brancaccio, li conosce bene per averne fatti arrestare oltre un migliaio (per questo si è guadagnato il soprannome di “cacciatore di mafiosi”2) raccogliendo in molti casi le loro preziose confessioni. Giovanni Brusca3 per esempio, l’uomo che il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci ha premuto il pulsante del telecomando, ha deciso dinnanzi a Sabella di far verbalizzare le sue prime dichiarazioni sulla presunta “trattativa” dello Stato con la mafia. Il magistrato nato in provincia di Agrigento che per un po’ è stato anche assessore alla Legalità di Roma, non ha mai avuto paura di dire ciò che pensa e in questa intervista, fatta alla vigilia del ventisettesimo anniversario della morte del giudice che «ha voluto compiere fino in fondo il proprio dovere», come ha scritto Alessandra Turrisi nel libro “Paolo Borsellino. L’uomo giusto”, evidenzia alcuni aspetti che – ancora oggi – mal si conciliano con la lunga (e complicata) operazione di ricerca della verità.
«Le azioni delittuose di Capaci e di via D’Amelio hanno avuto dinamiche e motivazioni molto diverse. Anche i soggetti coinvolti lo sono stati. Mi spiego meglio: l’assassinio di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta4 era stato deciso da Salvatore Riina5 per togliere di mezzo il “nemico giurato” di Cosa nostra. Falcone, infatti, in quanto direttore degli Affari Penali al ministero di Grazia e Giustizia era ritenuto anche il “responsabile” dello spostamento del maxiprocesso6 contro Cosa nostra – nel frattempo arrivato in Cassazione – dalla Prima sezione presieduta da Corrado Carnevale7 al collegio retto da Arnaldo Valente. i giudici di questo collegio il 30 gennaio 1992 avevano emesso un verdetto che confermava quasi tutte le condanne comminate in primo grado8, annullava le assoluzioni pronunciate in appello e avallava in questo modo il cosiddetto teorema Buscetta». Ma l’“attentatuni” che fece esultare i mafiosi al tempo detenuti all’Ucciardone «era stato organizzato anche allo scopo di impedire al senatore Giulio Andreotti9 di diventare presidente della Repubblica. Tant’è che, all’indomani della strage, e precisamente il giorno dei funerali di Falcone, il Parlamento elesse all’unanimità Oscar Luigi Scalfaro». Per la morte di Borsellino (e dei cinque agenti della sua scorta10), avvenuta il 19 luglio, le motivazioni di “u curtu”11 sono state altre, precisa Sabella: «Da un lato vi era l’intenzione di eliminare chi poteva rappresentare un grosso ostacolo all’ipotesi di revisione del maxiprocesso – conoscendo i mafiosi di Corleone e Brancaccio, e sapendo che sono individui senza onore, so che per loro l’unico obiettivo da perseguire era scansare l’ergastolo – e dall’altro alzare il livello dello scontro così da costringere lo Stato a tendere una mano a Cosa nostra per riportare la pace».
– Dottor Sabella, che cosa è accaduto nei cinquantasette lunghi giorni intercorsi tra le due stragi?
E’ accaduto che le istituzioni si sono mosse in modo molto curioso. L’8 giugno 1992 il consiglio dei Ministri approvò il decreto antimafia Scotti-Martelli che introduceva il 41 bis e alcune importanti modifiche alle norme del codice di procedura penale. Il decreto, contestatissimo da molti avvocati italiani12, prevedeva anche il trasferimento di centinaia di detenuti mafiosi ritenuti pericolosi nelle carceri dell’Asinara e di Pianosa, considerate più sicure, ma non aveva i numeri per essere convertito in legge entro sessanta giorni; e così il Dap13, forse in allarme per questa “debolezza” e per il conseguente rischio di fare una figura barbina davanti agli italiani, non eseguì immediatamente quanto previsto dal provvedimento. Decise di attivarsi invece nella notte tra il 20 e il 21 luglio, poche ore dopo l’assassinio di Borsellino, perché a quel punto era chiaro a tutti che anche i parlamentari più garantisti e più sensibili ai diritti umani, quelli che fino a pochi giorni prima avevano denunciato l’incostituzionalità del decreto e coloro che volevano evitare a tutti i costi una militarizzazione del Paese, avrebbero votato a favore. E’ proprio nel breve periodo che intercorre tra una strage e l’altra che sono avvenuti i primi contatti – non solo dialettici – tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia.
– Anche la girandola di poltrone ministeriali di quei giorni sarebbe alquanto curiosa
Mi limito a osservare un fatto: il 28 giugno 1992 Enzo Scotti va a dormire, come dico io, ministro dell’Interno14 e si sveglia ministro degli Affari Esteri, vedendosi polverizzare in questo modo una brillantissima carriera politica che – seguendo la logica della Dc di allora – lo avrebbe portato addirittura alla presidenza del consiglio dei Ministri. All’Interno viene nominato invece Nicola Mancino. E’ possibile che Scotti, bruciato dalla trattativa con la Camorra, e con Raffaele Cutolo in special modo, per la liberazione dell’assessore regionale democristiano Ciro Cirillo15, non avesse voluto avere più niente a che fare con eventuali trattative con la mafia, venendo per questo “sacrificato”? E’ solo una mia ipotesi, ma forse è arrivato il momento che Scotti racconti qualcosa in più, e in maniera più chiara, di quanto ha detto fino ad oggi.
– L’1 luglio al Viminale il neo ministro Mancino incontrò Borsellino
Sì, era il giorno del suo insediamento al ministero, e con lui c’era anche il capo della Polizia Vincenzo Parisi (in seguito sentito da Ilda Boccassini come persona informata sui fatti16 nda); si dice pure che sulla porta incrociarono anche l’ex 007 Bruno Contrada17. Ho sempre pensato che fosse molto strano che il ministro dell’Interno appena insediato avesse deciso di convocare Paolo Borsellino18 al Viminale, alla presenza del capo della Polizia, subito dopo aver incontrato i prefetti (come da prassi istituzionale); se poi consideriamo che le eventuali impressioni suscitate da quell’incontro dovevano essere state scritte su quella famosa agenda rossa che sembra essere sparita dal luogo del massacro, allora qualcosa che non torna c’è davvero.
– Tuttavia, il neo ministro Mancino per anni aveva negato di aver incontrato Borsellino, salvo poi ammettere, nel 2018, che era stato il capo della Polizia a comunicargli che il dottor Borsellino lo voleva incontrare e che, comunque, in quell’occasione ci fu solo una stretta di mano, “nessun dialogo”. Passiamo a Claudio Martelli, il quale aveva raccontato di essersi lamentato con Mancino del fatto che il Ros aveva instaurato un contatto con Vito Ciancimino senza informare l’autorità giudiziaria
Nel momento in cui “gli è tornata finalmente la memoria”, Martelli ha affermato che tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio erano andati a trovarlo alcuni ufficiali del Ros e gli dissero che stavano sentendo Ciancimino e che avevano bisogno della copertura politica per andare avanti. A dire di Martelli la sua risposta fu negativa e agli ufficiali suggerì di parlarne con Borsellino. Benissimo. Siccome sappiamo che storicamente i contatti tra gli ufficiali del Ros e l’ex sindaco di Palermo sono andati avanti, se non gliel’ha data Martelli, la copertura politica, chi gliel’ha data? E’ una domanda che ancora oggi non ha trovato una risposta.
– Che cosa si sperava di fare “cedendo” a Cosa nostra?
Ci si auspicava che con la cattura di Riina, Cosa nostra sarebbe inevitabilmente finita in mano al “più moderato” Bernardo Provenzano, che era il suo vice. In realtà si sono fatti male i conti e l’ala militare di Cosa nostra è passata nelle mani del cognato di Riina, Leoluca Bagarella, e di Giuseppe Graviano, artefici delle stragi del 1993 nel continente.
– Uno dei depistaggi seguiti ai fatti di via D’Amelio ha avuto per protagonisti Vincenzo Scarantino e l’allora capo della squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera
Devo fare una premessa: chi nel 1992 aveva incautamente trattato con la mafia sapeva di aver determinato moralmente la decisione di Totò Riina di attuare un’altra strage allo scopo di costringere lo Stato a riprendere la trattativa. Detto ciò, in quel momento storico era vivo l’interesse a ricondurre l’attentato in cui hanno perso la vita Borsellino e i cinque agenti della scorta a una decisione unitaria di Cosa nostra; faceva parte della logica di “normalizzazione” il riconoscimento delle medesime logiche per entrambi i delitti. In questo “disegno”, dove tutto pareva quadrare alla perfezione, è entrato a un certo punto Arnaldo La Barbera19, che a quel tempo guidava il gruppo Falcone-Borsellino: è stato l’ispiratore di una specie di depistaggio o altro? Gli era stata suggerita una ragion di stato diversa? Si è trovato nella necessità di trovare un colpevole a tutti i costi? Conoscendo la lunga esperienza professionale di La Barbera, che tra le altre cose era stato anche uomo del Sisde, devo tuttavia ammettere che questa opzione non mi convince: secondo me lui era perfettamente in grado di rendersi conto, come è successo a me, che Vincenzo Scarantino20 non era un mafioso ma un semplice spacciatore, autore di reati di piccolo cabotaggio e non certamente di mafia. Io stesso lo avevo in precedenza sentito a Palermo e ritenuto immediatamente ritenuto fasullo dalla testa ai piedi, tanto che avevamo deciso di non dare credito alle sue affermazioni. “Se lei è un mafioso”, gli avevo detto congedandolo, “io sono un fisico nucleare”.
– Con Gaspare Spatuzza le indagini imboccano la strada giusta ma mettono in crisi molto del lavoro svolto negli anni dalla Procura e dalle corti d’Assise di Caltanissetta
Su via D’Amelio Spatuzza 21confessa di aver rubato l’autobomba portata sotto casa della madre di Borsellino e scagiona i boss di Santa Maria di Gesù, nel frattempo condannati in via definitiva. Nel mio libro “Cacciatore di mafiosi”, scritto e pubblicato molto prima della collaborazione di Spatuzza e nonostante la sentenza definitiva della Cassazione, avevo già scritto che, secondo me, gli uomini di Pietro Aglieri erano estranei alla strage di via d’Amelio e che i veri responsabili dovevano essere i mafiosi di Brancaccio. Ritengo però poco probabile che sul luogo del delitto fosse presente qualcuno di estraneo a Cosa nostra. Forse c’era qualcuno che era un uomo d’onore ma che non poteva essere presentato a Spatuzza che, invece, uomo d’onore ancora non era: al momento dell’esecuzione della strage, infatti, egli non era formalmente affiliato a Cosa nostra e, per questa ragione, non aveva alcun diritto di conoscere gli altri affiliati. Tutto ciò lo posso affermare sulla base della mia esperienza professionale maturata sulla mafia militare degli anni Novanta; una mafia che ho conosciuto molto bene e che ho contribuito a rinchiudere nelle patrie galere.
A differenza di molti che, ad esempio, continuano a vedere Cosa nostra come una specie di inossidabile monolite giunto a patti scellerati con alcuni politici o con rappresentanti delle nostre istituzioni, io penso invece che, quasi paradossalmente, la trattativa, se c’è stata, è intervenuta non tra pezzi dello Stato e la mafia bensì tra pezzi della mafia e lo Stato.
1 Marzia Sabella è stata l’unica donna che ha partecipato alla cattura di Bernardo Provenzano e a lungo ha indagato su Matteo Messina Denaro.
2 E’ il titolo del suo libro uscito nel 2008 per Mondadori e che ha ispirato la fiction “Il cacciatore”, andata in onda lo scorso anno su Rai Due.
3 Soprannominato “‘u verru”, il porco, è finito in manette il 20 maggio 1996 nell’Agrigentino. Responsabile materiale dell’assassino del giudice Rocco Chinnici e di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, strangolato e sciolto nell’acido nel gennaio 1996.
4 Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
5 Capo di Cosa nostra dagli anni Settanta fino alla sua morte (nel 2017), é stato arrestato il 15 gennaio 1993 a Palermo dopo ventiquattro anni di latitanza e migliaia di omicidi; é stato condannato a decine di ergastoli: tra questi per gli assassini di Falcone e Borsellino, per Pio La Torre, Boris Giuliano, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa.
6 Giovanni Brusca lo confermerà anni dopo, durante il processo Capaci bis, istruito a seguito delle dichiarazioni di un altro collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza: “Volevamo l’assoluzione di tutti al maxiprocesso; volevamo l’immunità”.
7 Soprannominato l’”ammazzasentenze” per avere annullato nella sua carriera centinaia di sentenze antimafia per vizi di forma.
8 Apertosi il 10 febbraio 1985 nell’aula bunker di Palermo, vedeva, tra gli imputati, Luciano Liggio, “Pippo” Calò, Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella (questi ultimi contumaci).
9 Secondo le dichiarazioni del pentito Francesco Onorato (reo confesso di una cinquantina di omicidi, tra i quali quello dell’eurodeputato Dc Salvo Lima) nel 1992 Riina voleva ammazzare Andreotti perché, a suo dire, il politico democristiano “non aveva rispettato i patti”.
10 Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.
11 Riina era chiamato così per la sua altezza: 1,58 cm.
12 Per protesta a Roma i processi erano stati bloccati per settimane.
13 Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria.
14 Incarico che ricopriva dal 16 ottobre 1990.
15 Rapito dalle Brigate rosse il 27 aprile 1981 a Torre del Greco e liberato ottantanove giorni dopo e a seguito di una trattativa del partito con le Br. Nell’agguato morirono il poliziotto Luigi Carbone, l’autista Mario Ancelli mentre il segretario di Cirillo, Ciro Fiorillo, fu ferito. Ancora oggi sono oscure le circostanze della sua liberazione.
16 Nulla di quanto è emerso in quella convocazione è fino ad oggi trapelato. Come riportato nella sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia, se Vicenzo Parisi non fosse deceduto, figurerebbe anche lui tra gli imputati.
17 Ex dirigente della Squadra mobile di Palermo ed ex 007, Contrada venne arrestato il 24 dicembre 1992 e condannato a dieci anni per concorso in associazione mafiosa. Assolto la prima volta in Appello, dopo il rinvio della Cassazione ci fu la conferma della pena a dieci anni, revocata nel 2017 dalla corte di Cassazione.
18 Quel giorno il giudice stava interrogando il pentito Gaspare Mutolo presso gli uffici della Dia quando fu convocato al Viminale.
19 A lungo impegnato nell’antiterrorismo in qualità di capo della Squadra mobile di Venezia (dove era attivo dal 1972) e trasferito nell’88 a Palermo, ha gestito le prime indagini per le stragi di Capaci e di via D’Amelio e, contestualmente, avrebbe portato avanti una collaborazione con il Sisde. Dopo una serie di prestigiosi incarichi svolti tra il capoluogo siciliano e Roma, venne trasferito al Cesis a seguito dei terribili fatti al G8 di Genova prima di morire per cancro nel 2002.
20 La sua attendibilità era stata certificata da decine e decine di giudici tra corte d’Assise, corte d’Appello e Cassazione.
21 Soprannominato “‘u tignusu”, il calvo, e affiliato giovanissimo alla cosca di Brancaccio, è il killer di don Pino Puglisi, il parroco della chiesa di san Gaetano, nel difficile quartiere palermitano, ucciso il 15 settembre 1993 (per questo delitto è stato condannato all’ergastolo) e il rapitore del piccolo Santino Di Matteo.