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06/01/2022Attraversando le idilliache campagne e i silenziosi boschi della Pennsylvania, non è affatto infrequente trovare, proprio dietro le dolci curve delle colline, decine di rumorosi escavatori, ruspe e macchine stradali al lavoro. Con movimenti frenetici distruggono alberi e divorano ettari di erba e di terra per creare enormi voragini che poi riempiono con colate di cemento, bitume, asfalto. Lavorano sodo per sostituire al prezioso paesaggio naturale e al suo suolo non rinnovabile ampie e comode strade per i milioni di Suv e di Pickup truck che ogni giorno l’attraversano. Questo, tuttavia, non succede solo in Pennsylvania, ovviamente, ma in ogni parte degli Stati Uniti e del mondo: ovunque, insomma, si sia arrivati a concepire la crescita economica come il bene supremo dell’umanità e il pianeta, con le sue imprescindibili risorse, semplicemente come un oggetto da sfruttare, depauperare e piegare ai nostri bisogni e desideri.
Si tratta di un modello di sviluppo irresponsabile, non più sostenibile, che nel giro di cento anni ha modificato il clima globale, sta danneggiando gli habitat delle specie viventi, molte delle quali in via di estinzione, sfibra gli ecosistemi e favorisce la diffusione di malattie. E’ uno squilibrio che ci sta costando caro, lo stiamo vedendo in questi quasi due anni di pandemia, ma che siamo ancora in tempo ad arginare se decidiamo di cambiare scala, inserendo valori non monetari in un sistema che fino ad oggi si è fondato sul denaro. Dobbiamo, insomma, tornare alla natura, come spiega Pierluigi Adami, ingegnere e studioso dello spazio, nel suo recentissimo saggio “Ritorno al pianeta. L’avventura ecologica dai Neanderthal alla pandemia” (Bordeaux Edizioni, pag. 284) perché solo curando il pianeta, ora ammalato, potremo curare noi stessi.
Analizzando i cambiamenti registrati nel rapporto tra l’homo sapiens e la natura, il primo dei quali cominciato 12 mila anni fa, nell’ultima fase, cioè, dell’età della Pietra, Adami, ex responsabile del gruppo Telespazio ed esperto di monitoraggio ambientale via satellite, affronta, pagina dopo pagina, “le radici dei mali del mondo”, raccontando la prossimità assai pericolosa tra uomini e animali, il vertiginoso aumento demografico, le penombre dell’industrializzazione e della globalizzazione, le città insostenibili, costruite sostituendo foreste e praterie con edifici, strade e campi coltivati, lo sfilacciamento del tessuto di relazioni, i “ritmi disumani di produzione e consumo” denunciati lo scorso anno anche da Papa Francesco. Il libro si sofferma poi sulla “febbre della terra” e spiega quale è il suo (tremendo) impatto su tutti gli esseri viventi: in queste pagine Adami parla dell’inquinamento dell’acqua e dell’alterazione del ciclo del carbonio, dell’innalzamento dei mari e della fusione dei ghiacciai, del consumo del suolo e della contaminazione dell’aria che respiriamo.
“A rendere non più sostenibile l’attuale modello di sviluppo è anche la velocità con cui ha stravolto il mondo” scrive l’ex componente di Telespazio, “la coesistenza temporale di contadini cinesi con il cappello a cono che irrigano con il secchio e imprenditori agricoli immersi nella tecnologia digitale e spaziale ci fa capire quale salto ha fatto l’umanità in pochi decenni”: un salto avvenuto a scapito delle altre specie viventi, se consideriamo che secondo l’ultimo report della Piattaforma Intergovernativa su Biodiversità e Servizi Ecosistemici delle Nazioni Unite, “ogni giorno si estinguono 150-200 specie viventi e il tasso di estinzione è cresciuto negli ultimi decenni a causa del riscaldamento globale. Circa un milione di specie viventi (su un totale di 1,9 milioni) sarebbe a rischio di estinzione. Altri studi scientifici”, puntualizza, comunque, “sono cauti, parlano di un tasso di estinzione pari a 24 specie al giorno”.
Questo pianeta malato, però, non lo possiamo curare con gli strumenti che ci fornisce un’economia altrettanto malata, come ha fatto notare anche Papa Francesco in un suo discorso dell’estate 2020: “(L’) economia malata è il frutto di una crescita economica iniqua, che prescinde dai valori umani fondamentali […] è necessaria una riconversione ecologica della nostra economia per curare la casa del mondo”.
In “Ritorno al pianeta” Pierluigi Adami ci dice che sì, siamo ancora in tempo per agire ma solo se ci attiviamo ora e tutti insieme. Dobbiamo dare vita ad una gentile “rivoluzione verde” per far convivere la crescita economica con un rapporto uomo-natura “in ritrovato equilibrio”.
“Dopo le storiche rivoluzioni agricole e industriali, e il recente progresso tecnologico che sta guidando la rivoluzione digitale”, afferma, “la rivoluzione green, ossia la trasformazione radicale del modello di sviluppo, di produzione e di consumo sin qui seguiti, potrebbe cambiare le sorti del mondo. Una rivoluzione incruenta. Niente spari e fiamme e ghigliottine, ma un insieme di buone pratiche, buoni comportamenti, scelte di governo responsabili e consapevoli [.. ] per compiere la rivoluzione green e dirigerla verso un esito positivo serve – come in tutte le rivoluzioni – la mobilitazione popolare”.
Se ciascuno di noi deve fare la sua parte, i governi devono avere però il coraggio di prendere “quelle scelte necessarie che di solito non prendono per non scontentare chi detiene il potere ed è interessato a mantenere lo status quo”. La rivoluzione di cui parla l’autore si basa quindi sulla “green economy e sulle centinaia di miliardi di dollari che ogni anno devono essere sborsati per attuare una vera conversione ecologica dell’economia, dei processi produttivi ed energetici e per investire su mitigazione e adattamento climatico”; riguarda la promozione della circular economy e della cultura del riuso (da adottare anche per limitare lo spreco di cibo), la riduzione dell’inquinamento e la tutela della biodiversità, la semplificazione reale delle norme e la facilitazione alla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
“Per costruire delle città sostenibili, ad esempio, non basterà costruire palazzi con buona efficienza energetica. Dovremo aprire il fortino artificiale fatto di cemento e asfalto, riportare la natura dentro le città e restituire al tessuto urbano il rapporto perduto con la sua campagna”.
Tornare al pianeta per curare l’umanità significa anche contenere quella velocità massacrante che il capitalismo neoliberista ha imposto al mondo, significa promuovere l’istruzione e l’informazione, diminuire intolleranze e xenofobia così come povertà e discriminazioni; per curare noi e la natura è fondamentale, inoltre, migliorare la condizione delle donne nel mondo, rendere il lavoro più equo e più giusto, favorire la cooperazione […] Qualcuno potrà ribattere che grazie alla spinta globale (del neoliberismo), la povertà e la fame sono diminuite nel mondo, ed è aumentato il benessere medio, almeno sino all’inizio della pandemia”, conclude Pierluigi Adami. “Il problema è capire quale benessere diffondere, quale modello seguire. Il benessere che arricchisce alcuni individui ma impoverisce il pianeta è un falso benessere […] Essere ricchi in un pianeta impoverito e con il clima inferocito vuol dire essere tutti poveri”.
Monica Zornetta (L’Economia Civile – Avvenire, 15 dicembre 2021)