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05/01/2023Trentotto anni, nubile, appassionata di romanzi, Carolina D., massaia della bassa modenese, aveva da poco tentato il suicidio al culmine di un periodo agitato quando fece il suo doloroso ingresso nel manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia con la diagnosi di paranoia persecutiva. Era il settembre 1887. Proveniva da una famiglia di Finale Emilia già segnata dalla malattia mentale e sebbene in gioventù avesse ricevuto “una certa istruzione”, come non mancarono di sottolineare i medici, non riuscì mai ad avere un lavoro stabile. D’altro canto, la sua salute si deteriorò in fretta: dalle iniziali esaltazioni e “leggerezze” di carattere osservate al momento del ricovero, passò presto ad alternare giorni di forte agitazione ad altri di prolungati silenzi. Si sentiva braccata e i deliri di persecuzione e le allucinazioni uditive di cui soffriva furono sempre più frequenti; sospettosa verso le altre ricoverate, temeva di essere uccisa e per non finire avvelenata decise di rifiutare il cibo che le veniva portato. Morì in silenzio, un giorno di primavera del 1907, dopo venti lunghi anni trascorsi al San Lazzaro, stroncata da una malattia del cuore.
Arcangelo L., noto nel paese di Formigine dove commerciava in cappelli e viveva con la famiglia, era un uomo intelligente e ambizioso che ad un certo punto della vita finì sul lastrico. Aveva 57 anni quando il suo comportamento mutò: divenne violento, irascibile, cominciò a bestemmiare e tuttavia, dopo poco tempo, i compaesani lo videro frequentare sempre più assiduamente la chiesa. Divenne “religioso fino al bigottismo”, come fu raccontato ai medici del San Lazzaro che dal luglio 1885 lo ebbero in cura, e arrivò a manifestare deliri mistici: “Urlava, dava pene in nome di Dio […] perché egli era anche padrone della grazia”, era la descrizione che ne fecero. All’ospedale non visse a lungo: appena due settimane. Era, infatti, all’ultimo stadio del contagio da sifilide e due giorni prima di morire fu preda di deliri di grandezza e di agitazioni che scivolarono tristemente in una fatale apatia.
A consentirci oggi di conoscere le vite tragiche e irrisolte di Carolina, di Arcangelo e delle decine di migliaia di altre persone internate dalla seconda metà dell’Ottocento nel grande “frenocomio di San Lazaro” – in attività dal 1821 al 1978, quando fu chiuso per effetto della Legge 180 -, sono le loro cartelle cliniche. Documenti preziosissimi, perché non solo registrano l’evoluzione della malattia fisica e psichica (o “morale”, come la pensavano all’alba di quel secolo lo psichiatra francese Philippe Pinel e il suo allievo, Dominique Esquirol) dei pazienti ma narrano, al tempo stesso, le biografie di uomini e di donne: di persone con una propria identità, fisionomia, dignità, che meritano di essere conosciute per quello che esattamente sono, senza il filtro a tinte fosche dell’infermità con lo strascico di paure e di pregiudizi che la sua incomprensibilità alimenta.
Sono quelle stesse cartelle cliniche che i Musei Civici del Comune di Reggio Emilia e la Ausl di Reggio Emilia/Biblioteca Scientifica Carlo Livi hanno voluto mettere al centro di un importante progetto musicale intitolato “La città del disordine. Storie di vita dal manicomio San Lazzaro”, dedicato al Museo di Storia della Psichiatria – parte integrante del Sistema museale reggiano – e al suo impegno in favore dell’inclusione sociale, del rispetto della “diversità” e della tolleranza.
Alla creazione di quest’opera intensa e originalissima è stato chiamato un musicista fuori dagli schemi: Nicola Manzan, violinista, polistrumentista e produttore noto per i suoi lavori sperimentali, alcuni dei quali di denuncia sociale firmati con il nome di Bologna Violenta, divenuti persino materia d’esame all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Gli otto brani che compongono l’album, prodotto da Dischi Bervisti e Overdrive, sono il frutto della trasposizione in musica delle cartelle cliniche di otto degenti i cui nomi danno anche i titoli ai brani: insieme ai già citati “Carolina D.” e “Arcangelo L.”, compaiono inoltre “Isabella Z.”, “Adele B.”, “Vincenzo O.”, “Cristina M.”, “Concetta G.”, “Arturo A.”. Otto colonne sonore, insomma, di altrettante esistenze fragili, folli e perciò prepotentemente umane perché, come ricordavano Franco Basaglia, Giorgio Antonucci e altri “psichiatri-antipsichiatria”, esiste una continuità fra il “normale” e il “patologico” ed è necessario riconoscere che in noi esiste la follia come esiste la ragione.
«L’ispirazione del disco è nata durante il lockdown», spiega Georgia Cantoni, curatrice e ideatrice del progetto, responsabile della comunicazione dei Musei Civici e referente del Museo di Storia della Psichiatria, «durante quel periodo, cioè, in cui tutti noi abbiamo sperimentato l’esperienza della reclusione e vissuto il disagio che tale condizione comporta; ho pensato alle tante vite recluse per anni al San Lazzaro e ho riflettuto sul modo in cui veicolarlo all’esterno per farlo arrivare a tutti ma, soprattutto, ai giovani, un target “debole” per noi. La musica poteva essere un buon mezzo e dopo essermi confrontata con l’Ausl di Reggio Emilia e la Biblioteca Scientifica Carlo Livi ho contattato il musicista, che proprio in quel periodo aveva fatto uscire il concept album “Bancarotta morale”, contenente storie di vite e di sofferenze».
Essenziale nel progetto è stato, infatti, anche il contributo della responsabile della Biblioteca Scientifica e dell’Archivio dell’ospedale psichiatrico, Chiara Bombardieri, che ha curato i testi di ogni cartella selezionando in base all’età, al genere, al tipo di diagnosi una ventina di documenti clinici già tradotti dagli originali alla fine dell’Ottocento (quando il San Lazzaro, diretto da Augusto Tamburini, era un istituto all’avanguardia che collaborava con i più importanti luminari europei e partecipava, spesso trionfando, a molte esposizioni internazionali) e li ha forniti al musicista il quale, a sua volta, ne ha scelti otto e su quelli ha iniziato a lavorare. «Prima di comporre ho studiato le cartelle cliniche e le ho “sentite”, in qualche caso anche con un certo turbamento per essermi, come dire, riconosciuto», spiega più nel dettaglio Nicola Manzan. «Non ero interessato a fare qualcosa di horror, né di cinico o di patetico: volevo invece ridare la dignità a quelle storie, a quelle persone. Non è stato un percorso facile ma mi ha dato, e continua a darmi, moltissimo: un anno e mezzo dopo l’uscita del disco ho composto un nuovo brano intitolato “Ernesto C.”, proprio come il paziente del San Lazzaro a cui si ispira. Questo singolo, pubblicato il 2 dicembre scorso, vede centrale il violino solista e racconta, con una melodia dal sapore ebraico, le fasi della malattia e le cure a cui il recluso, un giovane ingegnere mantovano, fu sottoposto».
Il Museo di Storia della Psichiatria di Reggio Emilia ha la sua sede in un padiglione particolare del complesso: il cosiddetto “Lombroso”, istituito nel 1911 per ospitare “pazzi criminali dimessi” e “detenuti alienati” e diventato inoltre, negli anni Quaranta, l’infelice “casa” dell’artista Antonio Ligabue.
Con i suoi graffiti eseguiti dai ricoverati, gli strumenti scientifici, di contenzione e di terapia, le schede cliniche e i documenti che hanno scritto la storia della psichiatria italiana, questo luogo un tempo di dolore e di costrizione, così come la Biblioteca Scientifica e l’Archivio del San Lazzaro, sa parlarci anche del presente, non solo del passato, «aiutandoci a fare in modo che questo tema non sia mai dimenticato», aggiunge Chiara Bombardieri. «Da anni lavoriamo con le scuole, con le università, con la comunità – il cui legame, strettissimo, è sempre stato permeato da diffidenze – per divulgare la conoscenza delle problematiche della salute mentale e combattere lo stigma che ancora oggi le accompagna. Questi spazi non danno risposte ma richiedono delle riflessioni, pongono delle domande e, se ci pensiamo bene, sono domande più attuali che mai».
«Il progetto “La città del disordine” ha anche un valore “umanistico”» conclude Georgia Cantoni, «perché, grazie alla collaborazione con la Ausl, l’istituzione pubblica che durante la pandemia è stata maggiormente in prima linea, armonizza cultura e salute pubblica: del resto i musei stessi sono oggi vissuti dalle persone come luoghi di “cura” interiore e pure per questo è necessario non fermare la loro evoluzione. I musei, per esempio, potrebbero porsi sempre più come committenti anche per la musica: in tal modo nelle sale non entrerebbe come semplice colonna sonora composta da altri ma come forma d’arte creata ad hoc per specifici progetti. L’Italia ha musei di piccole e medie dimensioni e ha una risorsa di artisti della scena indipendente validissima da cui attingere: credo sia uno spreco non creare interessanti sinergie, peraltro sostenibili perché fanno bene davvero a tutti».
Monica Zornetta (L’Economia Civile – Avvenire, 7 dicembre 2022)