L’inferno artificiale di Lovecraft: come inventò il suo set gotico

Foto copertina: Cesare Barillà
Rileggere la storia delle mafie con gli occhi della memoria
25/11/2024
Foto copertina: Cesare Barillà
Rileggere la storia delle mafie con gli occhi della memoria
25/11/2024

«Il 16 luglio 1923 mi trasferii ad Exham Priory dopo che l’ultimo artigiano aveva finito i suoi lavori. La restaurazione era stata un’impresa straordinaria, perché dell’edificio era rimasto ben poco: un guscio vuoto e in rovina. Il luogo era disabitato fin dai tempi di Giacomo I quando una tragedia orribile e in gran parte misteriosa aveva colpito il signore del casato, cinque figli e parecchi servi, e aveva indotto il terzo figlio, mio progenitore in linea diretta e unico sopravvissuto dell’aborrita famiglia, a fuggire sotto l’ombra di atroci sospetti».

Comincia così, evocando l’ombra di un’oscura catastrofe, The rats in the walls (I ratti nei muri), uno tra i più affascinanti e inquietanti racconti gotici scritti da Howard Phillip Lovecraft all’alba degli anni Venti. Composto nell’estate 1923 a Providence, Rhode Island, nella casa al civico 598 di Angell Street dove viveva con la madre Susan, è stato pubblicato nel marzo seguente sul terzo numero di Weird Tales, la bizzarra rivista a metà tra l’horror e il fantastico fondata a Chicago da due appassionati di E. A. Poe e di storie hard-boiled.

Ambientato in un immaginario priorato inglese divenuto, dopo un lungo restauro, la stravagante dimora del maturo Delapore, ultimo erede della genia De la Poer, la «maledetta da Dio», dei suoi sette domestici e di nove fedeli gatti, pagina dopo pagina The rats in the walls si addentra nelle tragiche vicende che per secoli hanno insanguinato le mura del castello e trasformato le sue viscere in un macabro teatro di crudeltà, di cannibalismi e “incroci degeneri”, terrorizzando gli abitanti del vicino villaggio di Archester e conducendo, infine, anche il nuovo residente alla pazzia. Una volta stabilitosi nell’antico priorato dal nativo Massachussetts, Delapore è infatti il solo a udire, ogni notte, l’improvviso frenetico raccapricciante trapestio di una moltitudine di roditori al di là delle pareti ed è ancora lui a riconoscere nello spaventoso Nyarlathotep, la divinità folle e senza volto inventata (e sognata) dallo stesso Lovecraft, il fulcro di tutti gli orrori commessi dai suoi antenati.

Il racconto si conclude con il protagonista che, disceso negli inferi dell’edificio insieme all’amico Edward Norrys, capitano dell’Aviazione Reale Britannica, ad alcuni studiosi e al suo gatto preferito, viene ritrovato «accoccolato sul cadavere semidivorato del capitano» intento ad invocare «Magna Mater…! Atys» in un’antica lingua gaelica mentre Nigger-Man, il fedele felino, lo minaccia con gli artigli puntati alla gola. A quel punto la disgraziata dimora con le sue cripte, le caverne segrete, i monoliti e i pavimenti ricoperti di ossa umane, e quasi umane, deturpate da famelici morsi viene distrutta e Delapore, regredito ad uno stadio primitivo e immerso nel delirio dei ratti nei muri, termina i propri giorni in un manicomio.

Considerato il miglior racconto di topi della narrativa nera e uno tra i più belli creati dall’autore del New England prima del “ciclo di Chtulhu”, The rats in the walls rappresenta per Sebastiano Fusco e Gianni Pilo, i curatori di Tutto Lovecraft (Fanucci editore, 1987-1991), «il primo tentativo, per Lovecraft, di costruire coerentemente una storia occulta che corra parallela a quella reale». E’ un’opera in cui l’umano e il non umano, il vero e l’immaginato si affiancano e talvolta si confondono che l’allora trentatreenne «Inventore di mondi» – la felice definizione è di Roberto Bui aka Wu Ming 1 – ha realizzato applicando «al racconto fantastico [i] metodi dello storico», come ha evidenziato il medievalista Giacomo Todeschini.

Se la parte fantastica, dunque, si muove in sincronia con il suo mondo onirico, i suoi disturbi parasomnici e l’interesse per la scienza, la parte storica viene plasmata da Lovecraft scavando in quel Northumberland che ha dato origine a una parte del ramo famigliare paterno, quello degli Allgood di Nunwick, in particolare in quelle umide terre che ospitano due luoghi simbolo dell’antica Britannia: la cittadina-mercato di Hexham (con la “H”) e il vicino villaggio di Corbridge, noto anche come Corchester ma da lui trasformato in questo racconto in “Archester”. Hexham è stata il cuore del Vallum Hadriani e, con la sua Abbazia, anche della cristianità sassone mentre Corbridge, costruito sui resti del forte romano Corstopitum, è stato un importante centro di culto della Magna Mater Cibele e teatro di sacrifici ferocissimi.

Erano i primi decenni dell’Ottocento quando il quarantenne William Allgood, futuro bisnonno di HPL, la moglie Rachel Morris e la primogenita Hellen, di nove anni, avevano lasciato la loro casa nel Nordest inglese ed erano approdati nel Nuovo Mondo, a Rochester, nello Stato di New York, dove erano poi nate Eliza, Sarah e Augusta Charlotte, poi zie dello scrittore. William era il bisnipote di Sir Lancelot Allgood, un ricco possidente del Northumberland e membro del Parlamento britannico che nella metà del Settecento aveva ereditato dal matrimonio con la cugina, Lady Jane Allgood, l’enorme proprietà di Nunwick dove vi aveva edificato la Nunwick Hall (attualmente abitata dai discendenti e tutelata dall’English Heritage, nda); Hellen, invece, diventerà la moglie di George Lovecraft e la madre, tra gli altri, di Winifield Scott, lo sfortunato genitore del maestro dell’horror.

Non avendo mai, nella sua vita, visitato l’amata Gran Bretagna, lo scrittore nato a Providence nell’agosto 1890 aveva certamente ricavato dalla stampa dell’epoca le notizie sui culti iniziatico-misterici dedicati a Cibele e ad Attis, al dio Mitra e a Panthea praticati in età romana nella contea “paterna”. Avevano infatti superato i confini nazionali le scoperte archeologiche avvenute a Corbridge e nella vicina fortificazione di Chester (Cilurnum) nel corso degli otto anni di scavi guidati dagli archeologi inglesi Francis Haverfield e Leonard Cheesman: dal 1906 al 1914, lungo il Vallo di Adriano erano stati riportati alla luce moltissimi reperti, tra i quali un altare in pietra arenaria con figure riconducibili ad Attis e a Men, una statua di Cibele, una testa di Attis, un’ara votiva con un’iscrizione alla dea Panthea e altri altari consacrati a divinità pagane venerate in special modo dai soldati romani di stanza in questa parte dell’Imperium.

Con le antiche pietre di Corchester, nel Medioevo erano state inoltre edificate la chiesa e il monastero della vicina Hexham, lungo la valle del Tyne, di cui la cripta sassone dell’Abbazia conserva preziose tracce. L’arcata d’ingresso a quella che è stata la chiesa voluta dal monaco, vescovo, consigliere reale e santo Wilfrid per diffondere il Cristianesimo nell’antico Regno di Northumbria e nel resto dell’isola – chiesa poi distrutta dai vichinghi di Halfdan Ragnarsson e ricostruita come priorato dai normanni – era stata realizzata con pietre prelevate da un altare romano, esattamente come il muro della cripta in cui è ancora possibile leggere alcuni passaggi di un’iscrizione all’Imperatore Geta, figlio di Settimio Severo e fratello di Caracalla.

L’Abbazia stessa è una stratificazione di stili architettonici di epoche diverse, e tuttavia ad essere vive sono soprattutto le presenze romane: dalla lapide del giovane Flavinus, soldato della prestigiosa Ala Augusta Gallorum Petriana, all’altare dedicato ad Apollo Mapono, dalla fonte battesimale al Frith Stool, il Trono di Wilfrid, ricavato da un blocco di arenaria prelevato dall’insediamento di Corbridge. Anche in questo caso è probabile che l’autore americano abbia appreso dai libri le informazioni sull’edificio, sui suoi sotterranei lastricati di pavimenti irregolari, sulle scale ripidissime dai gradini consunti, sui bui passaggi segreti, l’uno riservato ai monaci e l’altro, più basso e più stretto, ai pellegrini che lo percorrevano in ginocchio fino al punto in cui si trovava la reliquia di St. Andrew, per poi trasformarle in «narrazioni di come il mondo avrebbe potuto essere, spostato nel tempo ma fissato in luoghi reali», proprio come ha suggerito Kenneth Brophy dell’Università di Glasgow nel suo Lovecraft Archeology (Love Archaeology Magazine, 2012).

Chissà, infine, se nella scelta di ambientare il lugubre racconto in questo luogo prossimo alla Scozia avrà pesato, in Lovecraft, anche il nomignolo con cui Hexham era conosciuta tra gli abitanti dei Borders: the Hell, l’Inferno.

Monica Zornetta (Domani, 4 dicembre 2024)

Il link: https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/lovecraft-inferno-artificiale-come-costrui-northumberland-senza-esserci-stato-set-gotico-ovpq2cg7

Il pdf: Domani-4-dicembre-2024-ARTICOLO.pdf