Alle radici di un’ingiustizia. La vita privata di Sacco e Vanzetti

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C’è corrente elettrica nell’aria. Ed è molto cattiva. Aleggia da tempo sulla città come un’enorme nuvola nera. Il suo centro è una stanza nuda e lugubre all’interno del penitenziario di Charlestown, un sobborgo di Boston, nel Massachusetts. Qui, tra poche ore lo Stato ucciderà due innocenti. Due immigrati italiani, due amici, due anarchici: Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.

In questa “bastiglia che eclissa in infamia qualsiasi altra prigione degli Stati Uniti” (le parole sono di un governatore democratico), in questo pavido carcere distante solo poche miglia dal molo in cui approdavano le navi degli schiavi destinati ai “civilissimi” bostoniani, il Commonwealth del Massachusetts con la sua parata di giudici, procuratori, giurati, governatori, poliziotti, ministri e boia, eseguirà presto l’ingiusta sentenza di condanna per due omicidi mai commessi.

Così poco avvezzi alla lingua inglese ma così fermamente contrari a ogni guerra e a ogni tipo di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, i due italiani, l’uno di Torremaggiore in provincia di Foggia, l’altro di Villafalletto, nel cuneese, sono infatti colpevoli a prescindere: a stabilirlo sono i pregiudizi razziali e l’odio politico che fanno da concime alla “terra dei liberi e la patria dei coraggiosi”.

Togliendo loro per sempre la parola e la vita, lo Stato conta di dare una lezione a tutti gli “anarchici bastardi” – come li aveva definiti il giudice del processo -, ai comunisti, agli iscritti ai sindacati dei lavoratori e a tutti i presunti sovversivi che sobillano alla ribellione per rovesciare il governo e incenerire le fondamenta di questa virtuosa società.

Per sette anni ha perciò rifiutato di accogliere le mozioni di riapertura del processo e le richieste di appello presentate dagli avvocati; per sette anni si è pervicacemente impegnato per dimostrare come la sua forza suprema riuscisse a vincere sulle mobilitazioni degli artisti, degli scrittori, dei giornalisti, degli intellettuali; per sette anni ha tenuto Nick e Bart prigionieri in celle anguste, ignorando tutte le prove e i testimoni che avrebbero potuto scagionarli ben sapendo che, alla fine, per loro non ci sarebbe stata che la sedia elettrica.

Ma affinché tutto questo si compia, bisognerà attendere la mezzanotte. A quell’ora la tensione che da anni elettrizza non solo l’aria di Boston, si trasformerà in una serie di potentissime scariche di corrente alternata che folgoreranno i loro corpi e quello di un altro detenuto: Celestino Madeiros, il reo confesso dei due omicidi.

Quando arriva la mezzanotte del 23 agosto 1927 il boia, un uomo di mezza età dall’aspetto insignificante, è pronto ad abbassare la leva. Prima tocca a Sacco, qualche minuto dopo al compagno.

A mezzanotte e 27 minuti tutto si è compiuto. Ma, a quel punto, la corrente non si ferma più.

Grazie anche all’impegno del Comitato di Difesa costituito dopo il loro arresto al civico 256 di Hanover Street, nell’italianissimo quartiere di North End, a Boston, quella corrente percorre città, valica montagne, attraversa mari e oceani per concentrarsi ovunque: nelle piazze, nei quartieri, nelle fabbriche, nelle sedi dei comitati contro la pena di morte, nelle redazioni di molti giornali del continente americano come della vecchia Europa.

 

Dopo la loro esecuzione, quella stessa corrente diventa una scarica elettrica dalla potenza ancor più sorprendente: attraversa le istituzioni, provoca rivolte, attentati, redige proclami di guerra contro lo Stato assassino e la sua famigerata red scare, proclama scioperi, chiede giustizia, accende lo scontro di classe. Per opportunità politica, l’Italia sceglie invece di non schierarsi apertamente contro gli Stati Uniti preferendo portare avanti una più cauta attività diplomatica.

A raccontarci in modo appassionante e coinvolgente la complessità di una storia che a distanza di così tanti anni non smette di far discutere, è un volume da poco approdato in libreria: “Sacco e Vanzetti. La salvezza è altrove”, scritto dal giornalista, scrittore e cantautore Paolo Pasi e pubblicato dai tipi di Elèuthera.

Combinando lettere e documenti d’archivio ad una scrittura efficace in cui la narrazione si fa romanzo, Pasi dà voce alla vita, alle idee, alla resistenza e alla disperazione di Ferdinando (che diventerà Nicola quando fuggirà in Messico con i compagni anarchici per evitare la chiamata alle armi) ma, soprattutto, a quelle di Bart, che parteciperà anch’egli al viaggio messicano e che proprio in quell’occasione avrà modo di conoscere il compagno.

Su di loro e sul caso giudiziario che li ha visti protagonisti molto è stato prodotto in questi cent’anni, in Italia, in Europa e negli Stati Uniti: film, canzoni (le prime, “Protesta per Sacco e Vanzetti” della Compagnia Columbia e “Sacco e Vanzetti” del tenore Raoul Romito sono del 1927), drammi teatrali, fumetti, articoli, paper scientifici, romanzi, saggi, l’ultimo dei quali pubblicato lo scorso anno.

Perché, dunque, un nuovo libro? «Perché ero convinto che dietro le loro vicende processuali ci fosse molto di più. Pensiamo a Vanzetti, per esempio, che amava il canto, la lettura, la scrittura: egli aveva trovato una finestra di libertà interiore proprio nello spazio ristretto del carcere; aveva imparato ad essere felice attraverso il dolore, a resistere per mezzo della parola. Ho vissuto la loro storia come un dramma moderno, che contrappone come sempre le ragioni della tirannide con quelle della libertà. Lo stesso Vanzetti lo sosteneva quando scriveva: “Il nostro caso fu fin dal principio, è, sarà fino alla fine una scaramuccia dell’eterna guerra fra la tirannide e la libertà”», spiega Paolo Pasi.

Forse è per questo che alla “terra (che si crede) di Dio” ci è voluto mezzo secolo prima di riabilitare moralmente le loro figure: solo nel 1977, infatti, l’allora governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, ha ammesso che il processo che li condannò era viziato da pregiudizi contro gli stranieri e i dissidenti”.

Strutturato in quattro parti, due delle quali interamente ambientate all’interno del carcere, arricchito dalle belle illustrazioni di Fabio Santin, il libro (e con esso l’avventura del suo autore) comincia da un paese del Piemonte bagnato dal fiume Maira: Villafalletto, il luogo degli affetti e della memoria, abbandonato a 20 anni da Tumlin, come lo chiamavano in famiglia, per scappare dal dolore per la morte della madre.

«A Villafalletto ho respirato le vibrazioni della storia: quando ho visto la casa dove vivevano i Vanzetti e il lungo viale alberato che portava alla vecchia stazione, mi sono calato nei panni di Bart, l’ho immaginato mentre usciva da quella porta per cominciare un viaggio da cui non avrebbe mai più fatto ritorno. Il primissimo passo però, quello che mi ha portato a pensare e a scrivere questo libro, l’ho fatto dopo aver letto “Un pezzo da galera” di Kurt Vonnegut, con le sue straordinarie pagine sui due anarchici che diventano metafora dell’insofferenza al potere arbitrario».

Bartolomeo, e con lui Nicola, vivono sulla pelle quell’America amara che vuole essere degli americani, non certo degli stranieri o dei radicali. In un passaggio di una lettera ai familiari è lo stesso Vanzetti a sottolinearlo: “Qui è bravo chi fa quattrini, non importa se ruba o avvelena; la giustizia pubblica è basata sulla forza e sulla brutalità, e guai allo straniero e in particolare all’italiano che voglia far valere la ragione con mezzi energici”. A coloro che non si adeguano al suo way of life, la sospettosa America ossessionata dal bolvescismo riserva gli arresti, le torture e i rimpatri forzati previsti dal famigerato “piano Palmer”.

«Non volevo scrivere la storia di due eroi ma raccontare la loro vicenda umana con tutte le incongruenze e le ingenuità che caratterizzano la vita di qualsiasi persona. Pensiamo solo alle mezze verità abbozzate in un primo momento per il timore di essere espulsi e all’arma che detenevano al momento della cattura: un “dettaglio” enfatizzato dall’accusa che Vanzetti giustificò come autodifesa. “Non sono tempi tranquilli”, disse. Non dimentichiamo, infatti, che due giorni prima dell’arresto, l’anarchico Andrea Salsedo precipitò da un edificio di Manhattan dove aveva sede l’Fbi».

Nemmeno oggi viviamo tempi tranquilli: la realtà è persino più complessa di quella vissuta da Nicola e Bartolomeo, eppure la loro storia ci può insegnare ancora tanto. «E’ la testimonianza di due persone che hanno scelto di non stare al proprio posto, in quello cioè che gli era stato assegnato, e di ribellarsi. È una storia attuale perché ci parla del coraggio di non obbedire al potere, di non rassegnarsi allo sfruttamento, di non farsi schiacciare da un’autorità che vorrebbe annientare le ragioni degli individui, i loro sentimenti, i loro sogni. Allo stesso tempo ci parla dei confini, della guerra, della pericolosa logica dei nazionalismi. Nell’aula dove si svolse il processo», conclude l’autore, «i due risposero con parole meravigliose all’accusa di diserzione che venne loro mossa: disertare, dissero, non significa sostenere le ragioni del nemico ma ritrarsi dallo sparare al nemico, non partecipare alle violenze e agli assassini, stare dalla parte della pace».

Monica Zornetta (Domani, 10 febbraio 2024)

Il link: https://www.editorialedomani.it/idee/alle-radici-di-uningiustizia-la-vita-privata-di-sacco-e-vanzetti-qmbhgf4s

il pdf: 2024-02-09-DOMANI-NAZIONALE-DOMANI-15-pdf.pdf