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La montagna sta soffrendo ma c’è chi non lo vuole vedere (e va avanti come se niente fosse); è una malata dal corpo sempre più fragile e bisognoso di cure della quale, però, in pochi si stanno occupando sul serio: tra questi, la politica purtroppo non c’è.

L’incremento della temperatura, che nei rilievi viaggia a velocità doppia rispetto a quello medio globale e che entro il 2050 potrebbe raggiungere i 2-3°C in più rispetto ad oggi, ha già fatto arretrare frontalmente i ghiacciai dell’arco alpino di molti metri, anche di una sessantina in appena due anni, e sta portando all’aumento irreversibile di frane e di valanghe di roccia e detriti.

Se è vero che le pressioni umane, esercitate specialmente attraverso attività svolte a quote basse, non smettono di minacciare in molti modi la biodiversità montana, è pur vero che la sempre maggiore scarsità della “risorsa neve” sta impattando profondamente sulla vita degli ecosistemi idrici e anche, ovviamente, su un certo tipo di economia turistica tradizionale basata su sport invernali come lo sci.

La sofferenza sempre più grave della montagna si esprime anche nella criticità in cui versano i medi e piccoli comprensori sciistici del nostro Paese, posti a quote ben più basse dei 2250 metri, addirittura sotto i 500, dove si contano già 249 impianti dismessi – di cui 54 in Lombardia – con un tasso di chiusura del 6% l’anno e una serie di previsioni tutt’altro che rosee per il futuro. A questi si aggiungono i 138 impianti “temporaneamente chiusi” per ragioni non solo climatiche ma soprattutto economiche (a causa degli altissimi costi dell’innevamento artificiale: una pratica che, sebbene antitetica con la tutela dell’ecosistema, in Italia è utilizzata nel 90% delle piste) e quelli sottoposti ad “accanimento terapeutico” e che sopravvivono solo grazie a sostanziose iniezioni di denaro pubblico. Tutto ciò porta con sé anche costi sociali importanti, se pensiamo che il numero dei posti di lavoro legati allo sci da discesa, tra diretti e dell’indotto, nel 2021 si aggirava sui 400 mila, con un fatturato compreso tra i 10 e i 12 miliardi di euro (dati: Nevediversa Legambiente).

È più che mai necessario, perciò, guardare in faccia la realtà e immaginare, con una certa urgenza, un modello di montagna e di turismo diverso da quello del passato, come chiedono da tempo attivisti e scienziati e come sta provando a fare il nuovo bando della Fondazione Cariplo, “Montagne in transizione”, che si rivolge ad organizzazioni non profit e ad enti pubblici.

Consapevole che non si può inseguire una neve che non c’è, che il turismo montano deve diventare ecosostenibile ed essere fruito in modi diversi dal passato (al contrario di quanto sta facendo la politica nazionale e regionale con la realizzazione della pista da bob per le Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026), il bando della Fondazione Cariplo intendere sostenere progetti e strategie partecipative che mirano a favorire la transizione ecologica in quelle zone della montagna lombarda e delle province del Verbanio-Cusio-Ossola storicamente caratterizzata da un determinato tipo di turismo invernale e, inoltre, a promuovere la diffusione di economie alternative e la “destagionalizzazione” dell’offerta turistica.

Un altro obiettivo del bando è di rendere concrete le pratiche di coesione territoriale previste dalla Strategia Nazionale delle Aree Interne, aiutando i territori montani a superare l’isolamento culturale, il declino demografico, la marginalizzazione e la carenza di servizi che molto spesso le penalizzano, attraverso il rafforzamento della centralità delle comunità locali, il miglioramento della qualità della vita, una maggiore attenzione alla salute dell’ambiente e la costruzione di una rete virtuosa di relazioni con i centri urbani di pianura.

“Montagne in transizione” scade il 19 luglio e prevede un budget di 300 mila euro per il finanziamento di circa cinque progetti (60mila euro a progetto) della durata massima di 18 mesi.

«E’ una iniziativa che sta andando nella direzione giusta», conferma Mauro Varotto, professore ordinario di Geografia all’Università di Padova e membro del comitato scientifico del portale L’Altra Montagna.

«Proprio come facciamo noi de L’Altra Montagna, il bando lavora sull’altra leva: quella della creazione della consapevolezza del fruitore medio. Tra l’altro, ci sono sempre più persone che non vedono la montagna come un divertimentificio ma come un luogo in cui spostare la propria residenza. È un ritorno alle terre alte dettato non solo dal cambiamento climatico ma anche dalla voglia o dal bisogno di riprendere in mano la propria vita, di renderla meno stressante e logorante di quanto non sia in città», continua Varotto, che da qualche anno ha scelto di vivere in un poco popolato paesino del massiccio del Pasubio. «Oggi, grazie alla tecnologia e alle maggiori infrastrutture, la montagna è diventata più accessibile rispetto a cinquant’anni fa. Non c’è più solo il cittadino che va in montagna a divertirsi e poi torna in città e, dall’altro lato, il montanaro che non si muove mai dalla montagna, ma ci sono persone che si muovono, in verticale e in orizzontale, per costruire qualcosa, non solo per “usare” qualcosa. È un trend che si accompagna anche alla creazione, da parte di sociologi, antropologi, linguisti, di nuovi interessanti termini come “montagna di mezzo”, “restanza”, “migrazioni verticali”, “appenninismo”, “metromontagna” e molti altri».

Monica Zornetta (L’Economia Civile – Avvenire, 5 giugno 2024)

il pdf: 20240605_EC-EC04-EC.pdf

il link: https://www.avvenire.it/economiacivile/pagine/ritorno-in-terra-alta-anche-la-montagna-in-transizione#google_vignette