L’ospite indesiderato (dall’inchiesta: Mafie in Veneto)

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«A Padova voglio rifarmi una vita da persona perbene», aveva rivelato ad ottobre 2011 Giuseppe Salvatore Riina, condannato per associazione mafiosa e detenuto nel carcere di Voghera. Una settimana dopo i pesanti portoni della casa circondariale si sarebbero aperti al termine di una condanna di otto anni e per lui, il terzogenito del “capo dei capi” Totò  e della moglie, Antonietta Ninetta Bagarella, sarebbe cominciata una vita da uomo libero. Trentaquattro anni, non altissimo (d’altro canto il papà è chiamato u curtu), con gli stessi occhi e le stesse labbra della madre e dello zio Leoluca (Bagarella, n.d.r.), il giovane corleonese Salvuccio aveva dunque manifestato il desiderio di lavorare presso una onlus padovana che si occupa del reinserimento sociale degli ex detenuti. È bastato però che sui giornali locali cominciasse a circolare l’ipotesi di un “abbraccio mortale” di Riina al veneratissimo Sant’Antonio perché, in Veneto, succedesse il finimondo.
La Lega Nord aveva tuonato: «No ai mafiosi nelle nostre città, a questa gente abbiamo già dato troppo». Il senatore Luciano Cagnin aveva evocato il passato, ricordando che «tutti quei mafiosi ospitati con il tanto triste provvedimento del soggiorno obbligato hanno poi fatto scuola ai nostri criminali, come Felice Maniero». Un altro deputato del “coerente” Carroccio, Massimo Bitonci, si era rivolto all’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni chiedendo, tra le righe di una interrogazione parlamentare, un suo tempestivo interessamento alla vicenda mentre uno dei colleghi padani che siedono in Regione, Roberto Ciambetti, aveva deciso di dire la sua paragonando l’arrivo di Riina junior a qualche cosa di pericoloso per la salute, ad esempio a un agente patogeno o a scorie radioattive. C’è stato chi, come il fondatore e presidente della “Life” Fabio Padovan, ha stuzzicato la memoria rammentando il rocambolesco soggiorno obbligato di Anna Mazza a Codognè, nel Trevigiano, e chi, come l’onorevole Udc e segretario regionale del partito, Antonio De Poli, si era coscienziosamente appellato al guardasigilli. «Il Veneto non vuole tra i piedi criminali pericolosi – aveva spiegato il delfino veneto di Pierferdinando Casini  – . Chi garantisce del recupero sociale dei detenuti pericolosi? Il caso di Salvuccio Riina pone interrogativi più importanti di una polemica politica, strumentale, che vede come protagonista la Lega. Al ministro della Giustizia (fino al 16 novembre 2011, ndr) Francesco Nitto Palma chiediamo di riferire in Parlamento sulla vicenda». De Poli, rappresentante di uno fra i partiti che annovera il più alto numero di indagati per associazione mafiosa, aveva precisato inoltre: «È grave che i magistrati che lo hanno condannato descrivano Salvuccio Riina come il nuovo punto di riferimento della famiglia e gli attribuiscano un ruolo da protagonista nella riorganizzazione della cosca facente capo al padre. Lasciare che un detenuto di questo tipo vada in giro libero è un gesto da irresponsabili che non fa bene a nessuno. Il recupero dei detenuti rimane un nodo irrisolto nel sistema carcerario italiano e il caso di Riina jr ne è una dimostrazione».
Sulla spinosa questione era intervenuto anche il cappellano del carcere di Voghera il quale, parlando del “giovanotto” di Corleone, aveva rivelato: «Mi sembra un bravo ragazzo, una goccia d’acqua, una persona molto trasparente. Viene in chiesa e non ha difficoltà nelle letture. È un ragazzino tutto acqua e sapone, è semplice..».
Peccato che il  bravo ragazzo sia un mafioso, figlio di mafiosi, per giunta non pentito. Un particolare che il suo avvocato, Francesca Casarotto, ha sottolineato con forza: «Sia chiaro che il signor Riina non è un pentito e rimane in ottimi rapporti con i suoi congiunti». I requisiti giusti, cioè, per diventare “per bene”, come si definisce lo stesso Giuseppe Salvatore Riina. È inquietante che in una terra dove la mafia è arrivata per importazione, stia ora approdando anche un nuovo modello di mafioso: quello, appunto, “per bene”, quello che non si è infamato (e non ha infamato la famiglia) con la collaborazione. Un mafioso con la faccia da persona molto trasparente: la faccia giusta con cui, all’ombra di Santo, confondersi tra la gente.
Anche Pierpaolo Romani, ex consulente della commissione antimafia e presidente di “Avviso Pubblico” era intervenuto sulla querelle tentando di gettare secchiate d’acqua sul fuoco. «Comprendo il disagio della popolazione per l’arrivo di una persona che ha un cognome così pesante – aveva commentato -. Ma non dobbiamo dimenticarci che, come hanno dimostrato alcune inchieste giudiziarie, il Veneto non è esente da personaggi che hanno collaborato con la mafia. Quindi, forse, invece di preoccuparci tanto del possibile arrivo del figlio di Riina, dovremmo fare il possibile per contrastare coloro che, anche veneti, con la criminalità organizzata fanno quotidianamente affari».
Giustissimo. Ma il giovane Riina non è solo il figlio del potentissimo boss di Cosa nostra. È anche un simbolo. Il suo simbolo. E chi poteva inviare quassù Cosa nostra, se non lui? A chi poteva affidare il compito di restituire una boccata d’ossigeno alla sua filiale veneta, agonizzante sotto il peso e i “successi” della ‘ndrangheta e della camorra?
Alla fine, comunque, l’ospite indesiderato se ne è tornato nella “sua” Corleone ma senza alcuna intenzione di restarci. Di recente l’avvocato Casarotto ha chiesto la revoca del soggiorno obbligato in Sicilia per il suo assistito adducendo ad una sua cessata pericolosità. In attesa della pronuncia del giudice, Padova fa sapere che, per lui, le porte della città continuano a restare chiuse.

Monica Zornetta, Narcomafie, 2012