Ohio, 1924. La rivolta degli italiani contro l’odio del Ku Klux Klan
24/02/2020La chiave aveva appena sfiorato la serratura quando ci fu l’esplosione, e il suo corpo venne scaraventato tra le auto parcheggiate. Non aveva quasi più niente addosso; dei suoi abiti erano rimasti soltanto brandelli di stoffa. Si schiantò sull’asfalto che sfumava davanti al grande palazzo bianco in Brainard Place, a pochi passi dalla Lincoln Continental prestatagli da uno dei suoi uomini per depistare chi voleva ucciderlo. Era un primo pomeriggio d’autunno, e quando lo ritrovarono non aveva più il braccio sinistro – l’impatto lo aveva scagliato una trentina di metri più in là – , né la collana con la croce celtica; ai suoi piedi aveva, però, la borsa verde degli “attrezzi”, da cui non si separava mai.
Negli istanti in cui l’autobomba alle sue spalle deflagrava, scoppiarono anche i vetri delle case e degli uffici di Lyndhurst e un numero indefinito di flash della sua vita violenta, e di volti e profili, di voci, qualcuna perfino dolce come una carezza, scorrevano e si incrociavano, rapidissimi, davanti agli occhi. Morì così, il 6 ottobre 1977 in un sobborgo di Cleveland (Ohio), uno dei più feroci criminali americani del Novecento: Danny Greene, the Irishman[1].
⊕ L’ultima bomba. Aveva alle spalle molti morti e molte bombe. Nella guerra combattuta dal 1974 a Cleveland tra il suo Celtic Club di gangsters irlandesi-americani, e la ben più consolidata Cleveland Crime Family, fin dagli anni Venti associata a La Cosa Nostra, la New American City era divenuta – specialmente nel 1976, con l’esplosione di decine e decine di ordigni – la pericolosa “Bomb City d’America[2]”. Erano così frequenti che il Bureau of Alcohol, Tobacco e Firearms[3] aveva istituito un suo quartier generale proprio nella zona nordorientale dello stato dell’Ohio, a cui la città di Cleveland faceva capo. Greene voleva la supremazia criminale sull’intera contea di Cuyahoga, lungo la costa del lago Erie, e considerava le autobombe un mezzo perfetto allo scopo: permettevano di eliminare chi lo ostacolava senza lasciare tracce. Sapeva che le auto imbottite di C-4 difficilmente fornivano elementi di prova alla polizia, poiché tutto si disintegrava con l’esplosione. E sapeva che quando, per qualche ragione, un congegno non detonava, i suoi componenti non avrebbero permesso di identificare gli autori. D’altro canto era un irlandese, e nella lontana Belfast, a quasi seimila chilometri da lì, da anni l’IRA usava gli esplosivi nei suoi attentati.
Anche i suoi tanti nemici la vedevano così, e infatti gli imbottirono varie volte le case e le auto di esplosivo, fallendo ogni volta. Era successo nel maggio 1975 quando un ordigno realizzato con Tetrytol, un esplosivo militare, scoppiò alle quattro del mattino ferendo alle costole Greene e distruggendo la sua abitazione nel sobborgo di Collinwood. Solo per un caso le porte e le finestre delle altre case non erano saltate in aria. Danny, in quel momento, dormiva al secondo piano insieme con la giovanissima fidanzata Denise Schmidt, che non riportò nemmeno un graffio. «Sono un cattolico irlandese», aveva detto poco dopo ad un reporter televisivo di fronte alle macerie della casa, «e penso che chi tira i fili da lassù abbia deciso che il mio tempo non è arrivato […] Io sono nel mezzo di due mondi: il mondo della piazza e quello della strada, e ho fiducia in entrambi. Non ho conti in sospeso», aveva aggiunto, guardando dentro l’obiettivo, «ma se qualcuno volesse venire dopo di me, io sono qui, al Celtic Club. Non sono difficile da trovare». Per tutta l’intervista era rimasto a petto nudo, con i muscoli bene in vista e le possenti braccia conserte in segno di sfida. Era dai tempi di Dion O’ Banion, il boss-fiorista della North Side Gang di Chicago che odiava Johnny Torrio e Al Capone, che un gangster irlandese-americano non godeva di tanto potere.
Quando, il 14 novembre 1933, Daniel John Patrick Greene nacque in un ospedale cattolico di Cleveland, i suoi genitori erano sposati da appena cinque giorni. Irene Cecilia Fallon e John Henry Greene erano due ventenni, figli di immigrati irlandesi che sulle prime non avevano accolto con entusiasmo la notizia di questa gravidanza fuori dal matrimonio. Ma non appena il piccolo Danny venne alla luce, la delusione si trasformò in gioia. E, subito dopo, in tragedia. Cinque giorni più tardi, infatti, Irene morì per un attacco cardiaco.
John, disperato, solo dopo i funerali della moglie si convinse a battezzare “il piccolo Greene” – come fino a quel momento lo avevano chiamato i parenti – e scelse, per lui, i primi due nomi del padre seguiti da quello del vecchio suocero Fallon. Cominciò a bere quasi subito. Nel giro di pochissimo tempo perse il lavoro di commesso viaggiatore e stava per essere buttato fuori di casa quando decise di portare il piccolo Danny al villaggio cattolico per bambini Parmadale, un orfanotrofio che accoglieva moltissimi figli di immigrati, e di affidarlo alle cure delle suore finché lui non si fosse ripreso. Qualche anno dopo, quando Danny lasciò l’istituto, con il padre che si era nel frattempo risposato non riuscì mai a legare. Si sentiva un pesce fuor d’acqua. Non ce la faceva a relazionarsi con la donna e sentiva di essere stato tradito un’altra volta. Spesso scappava di casa; in un paio di occasioni non era nemmeno rientrato per la notte: lo trovarono fuori, al freddo, nascosto sotto il portico del vicino. Esasperato da questi comportamenti, John lo allontanò da lui per la seconda volta: lo consegnò al padre Daniel John, che abitava dall’altra parte della città. Era, il nonno, un vecchio irlandese solitario rimasto vedovo qualche anno prima della nascita di Danny, che raramente usciva di giorno dalla sua casa in legno a Collinwood: lavorava infatti come stampatore del Cleveland Plain Dealer, di notte. E quando rientrava a casa, si metteva a letto. Il piccolo Greene crebbe così. Solo e inascoltato.
Frequentò la scuola cattolica senza grandi risultati: pur essendo un bambino intelligente, gentile e leale, molto bravo con il baseball, non era affatto incline alle regole, e allo studio preferiva di gran lunga la ribelle vita della strada. Erano le suore, a scuola, a prendersi cura di lui: gli permettevano di scendere nelle cucine, gli preparavano da mangiare e si assicuravano che riposasse.
A Collinwood i ragazzini irlandesi erano spesso presi di mira dai figli di altri immigrati, specialmente italiani. Le angherie nei loro confronti erano quotidiane. Ma sebbene Danny non fosse particolarmente grosso, reagiva. E picchiava. Non aveva paura di nessuno, nemmeno dei ragazzi più grandi. E in strada, lì si, si sentiva accettato per quello che era. Nel 1951 entrò nel corpo dei Marines, facendosi notare più per le sue doti di boxeur che di soldato: dopo tre anni trascorsi tra Camp Lejeune, in North Carolina, e altri campi, tornò a Cleveland dove trovò un impiego come frenatore allo scalo ferroviario di Collinwood. Poi come scaricatore di porto, insieme a molti altri irlandesi.
⊕ Il Sindacato e il “Comitato di reclamo”. La città attraversata dal fiume Cuyahoga[4] non era mai stata, per la verità, un vero e proprio punto d’attrazione per gli eredi dei celti. Lo era invece per gli sloveni, gli ungheresi, i cecoslovacchi. La maggior parte degli irlandesi, una volta sbarcata nella costa est, raggiungeva New York, Boston, Philadelphia, ma anche Chicago, St Louis e la Mahoning Valley, in Ohio, dove vi era un gran daffare nelle miniere di carbone e nelle fabbriche di acciaio. Molti di quelli che arrivavano in Nord America rimanevano in pratica, per tutta la vita, nella laboring class; gli altri diventavano poliziotti, criminali o religiosi. Fu il porto, all’epoca in piena espansione sulla costa nord[5], a convogliarli a frotte a Cleveland come forza lavoro; la maggioranza si insediò nel quartiere-ghetto chiamato “the angle”, sorto nella metà dell’Ottocento lungo la curva del Cuyahoga.
Fin dall’inizio del Novecento le unioni sindacali dei lavoratori erano organismi potenti: a Cleveland ne operavano un centinaio, quasi tutte affiliate con l’AFL, la Federazione americana dei Lavoratori, a cui, negli anni Trenta, si oppose il CIO, il Congresso delle Organizzazioni Industriali, che riuniva i salariati di categoria degli Stati Uniti e del Canada. Vent’anni dopo le due sigle si unirono nella AFL-CIO. Danny Greene fu nominato presidente dell’ILA, l’aggressivo sindacato che tutelava i portuali, e nel giro di poco allacciò torbidi rapporti di interesse con personaggi molto noti in città: ai suoi parties, organizzati negli uffici dell’associazione, prima, o dopo, le partite dei Cleveland Browns, figuravano poliziotti, giudici, amministratori comunali, politici e criminali. The Irishman faceva il bello e il cattivo tempo in quegli uffici, che raggiungeva al volante di una Cadillac verde. Decideva chi assumere e chi licenziare, quali compiti assegnare e a chi, fissava le ore di lavoro e i compensi, obbligava a straordinari non pagati (intascandosi quel denaro[6]) e a partecipare a scioperi che egli stesso ordinava per dimostrare ai proprietari della compagnia chi comandava sui moli. A coloro che non gradivano le sue disposizioni faceva assaggiare i metodi della sua solerte squadra di picchiatori: minacce, botte, bombe. L’aveva chiamata “Comitato di reclamo”, era composta da ex boxeurs e da delinquenti e gli aveva permesso, con i suoi soprusi, di acquisire sempre più potere nel «mondo di mezzo di Cleveland» -, come Greene lo definiva -, abitato da politici, sindacalisti e gangsters. Avvenne probabilmente in questo periodo l’abboccamento con l’Fbi[7] , che lo assoldò come informatore confidenziale di alto livello con il nome in codice “Mr. Patrick”.
Girava con una calibro 22 nella giacca e teneva un fucile a canne mozze in ufficio; ogni notte, spendeva follie nei nightclubs, negli stripjoints e nei ristoranti lungo “Short Vincent” Avenue. Era un habitué del Theatrical Bar and Grill, celebre luogo di ritrovo (e talvolta di inizio carriera) di stelle del musical e del cinema come Judy Garland, Frank Sinatra, Perry Como, Lauren Bacall e Dean Martin, e quartier generale di mobsters molto temuti, come Alex “Shondor” Birns, che proprio qui Greene conobbe.
In quegli anni Denny viveva con la moglie Nancy Hegler e le figlie in un quartiere le cui case davano sul lago Erie. Godeva di un’ottima reputazione tra i vicini di casa, che lo consideravano una sorta di moderno Robin Hood. Affabile e carismatico, aveva conquistato il consenso del quartiere a suon di favori: la gente di lì ricordava quando aveva pagato la retta al college per quattro anni ad una ragazzina figlia di disoccupati, o le spese scolastiche ad alcuni ragazzini rimasti orfani. Ogni anno per il Thanksgiving, e poi per Natale, comprava un grosso tacchino e lo donava ai residenti più poveri.
Leggeva moltissimo: quasi ogni giorno si presentava in ufficio con un libro che riguardava la “sua” Irlanda, da dove erano partiti i nonni per sfuggire alla Great Famine[8]. Sognava di andarci, un giorno, nell’ “isola dei Greene” al di là dell’Oceano, e di toccare con le proprie mani quella terra epica, e di calpestare quell’erba che – ne era convinto – parlava di lui e del suo destino. Per quel Paese provava un’adorazione che sfociava spesso nell’ossessione: non solo vedeva sé stesso come la reincarnazione di un coraggioso guerriero celtico ma aveva adottato il verde smeraldo come proprio colore. Vestiva un cappotto tipo plaid verde, usava solo penne a sfera con inchiostro verde e scriveva su carta della stessa tinta, aveva dipinto le pareti dell’ufficio di quella nuance (la stessa, peraltro, del grande tappeto che vi campeggiava) e guidava una Cadillac in tono. L’essere irlandese, e sentirsi tale, era divenuta la sua forza: era il suo modo per riavvicinarsi, in un certo senso, alle proprie origini, e sopravvivere in un mondo popolato di ebrei, italiani, afroamericani. Un mondo dove l’unico vero irlandese era lui.
⊕ Il business dei rifiuti. Negli anni Sessanta, quando le industrie pubbliche e private erano in frenetica espansione, la criminalità organizzata americana aveva affiancato alle “normali” attività delittuose anche la gestione e il trasporto dei rifiuti. Che a Cleveland non mancavano di certo. Nell’arco di un secolo – dal 1868 al 1969 -, l’inquinamento[9] prodotto anche dallo smaltimento selvaggio dei rifiuti aveva raggiunto livelli di nocività tali che per tredici volte (l’ultima, nel giugno 1969), il fiume che attraversa longitudinalmente la città, il Cuyahoga, si era incendiato. “Le fiamme erano partite da una marea nera nel fiume”, aveva scritto in quei giorni il magazine Time, “spazzando via le banchine al Great Lakes Towing Co, distruggendo tre rimorchiatori, tre edifici e i cantieri di riparazione navale”. Per anni, e quindi anche periodo dell’ascesa criminale di Danny Greene, nel Cuyahoga erano stati sversati oli industriali, rifiuti chimici e tossici, detriti e acque reflue, espandendo l’avvelenamento al lago Erie e ad altri Grandi Laghi.
In città il trasporto dell’immondizia era controllato da una corporazione denominata Cleveland Solid Waste Trade Guild, infiltrata dai mafiosi della Famiglia di Cleveland che fissavano i prezzi dei servizi e si spartivano gli alti profitti. Greene, nel frattempo divenuto capo del “Celtic Club” – una gang di giovani di origini irlandesi che puntava a sfilare all’“onorata società” il controllo delle attività nell’area metropolitana di Cleveland – era stato coinvolto nel business dal vicecapo della Family, il palermitano Frank Brancato, per farne il “portatore di pace” della gilda, alla sua maniera. Era lui, insieme a una sua squadra di uomini selezionati, che picchiava, incendiava o faceva saltare in aria con qualche bomba i piccoli trasportatori indipendenti che non accettavano di sottostare al loro strapotere. Aveva tra i suoi collaboratori il giovane esperto di esplosivi Arthur R. Sneperger[10] e Michael “Big Mike” Frato[11], un imprenditore del settore e suo strettissimo amico. Ad un certo punto Frato aveva lasciato la Cleveland Solid Waste Trade Guild per fondare una propria impresa, la concorrente Cuyahoga County Refuse Handlers Association, scatenando il risentimento di Greene e di Brancato e firmando, in questo modo, la propria condanna a morte.
Ormai lontano dalla ILA dopo una battaglia legale durata qualche anno, l’ambizioso Danny si mise in società anche con un gangster ebreo[12] di altissimo livello, l’efferato Alex “Shondor” Birns. Era, questo, un personaggio molto noto e molto temuto a Cleveland fin dagli anni del “noble experiment”, e controllava il racket della prostituzione, dei furti, delle lotterie illegali, delle scommesse, delle lavanderie e dei prestiti a tassi usurai. Aveva ventisei anni più di Danny, amava far saltare in aria i suoi nemici e collaborava da qualche anno con La Cosa Nostra attraverso il clan Gambino[13] e la Cleveland Crime Family.
⊕ La Famiglia di Cleveland. Fu il primo licatese sbarcato diciassettenne in Nordamerica a fondarla, durante gli anni Venti. Rapine, furti, estorsioni, erano i reati quotidiani di Giuseppe “Joseph” Lonardo (chiamato “Big Joe” per la stazza), dei suoi tre fratelli[14] e di altri sette ambiziosi siciliani, nati anch’essi nella cittadina della provincia di Agrigento ed emigrati negli Stati Uniti per sfuggire ad una vita nelle zolfare: i fratelli Porrello. Le loro attività criminali si affiancavano a quelle, lecite, di vendita ambulante di frutta e verdura, di barberia e di produzione dolciaria, e si consolidarono con il rifornimento di zucchero di mais (per la fermentazione dei liquori) ai contrabbandieri di Cleveland. La svolta arrivò con la scissione dei Porrello, che, decidendo di dare vita ad un proprio clan, divennero gli antagonisti degli antichi amici e compaesani. Quando “Big Joe” rientrò per un breve periodo in Sicilia, lasciando temporaneamente il comando dell’organizzazione in mano a uno dei fratelli e al licatese Salvatore Todaro, detto “Black Sam”, la faida era già esplosa. Nel 1927 Joseph – tornato in America – venne massacrato insieme con il fratello nella sala giochi dei Porrello (con la complicità di “Black Sam”, passato nelle loro file), ormai a quel punto divenuti i più imponenti produttori di zucchero di mais dell’area di Cleveland. Mentre gli altri due fratelli Lonardo entrarono a far parte della Mayfield Road Mob[15] guidata dal calabrese Francesco “Frank” Milano[16] (componente della “prima ora” della Commissione[17] della Cosa Nostra e grande avversario dei Porrello), la Cleveland Crime Family divenne la protagonista di un celebre quanto sfortunato summit di mafia organizzato nel dicembre 1928 nelle sale, lussuosissime, del Grand Hotel Statler, a Cleveland. Tra gli obiettivi della riunione, a cui parteciparono i boss delle più importanti Famiglie americane, c’erano l’accordo sulla presidenza dell’Unione Siciliana, dalla quale arrivavano finanziamenti, e il riconoscimento di Porrello quale boss di Cleveland. Quello che venne definito il primo incontro della storia tra vertici della mafia, si concluse con una pioggia di arresti da parte della polizia.
Qualche mese dopo la vicenda al Grand Hotel, Sam Todaro venne assassinato dal figlio di Joseph Lonardo, Angelo (“Big Angie”), e la stessa sorte toccò alla gran parte dei membri della Cleveland Crime Family. Compreso il suo boss. Rafforzata dal passaggio di diversi gangsters nelle sue file, la Mayfield Road Mob si fuse con quel che restava della Famiglia trasformandosi, così, nella più forte organizzazione dell’area di Cleveland, mentre Frank Milano, considerata la sua appartenenza alla Commissione e i suoi forti contatti con Lucky Luciano e Meyer Lansky, divenne uno dei più autorevoli boss mafiosi americani. Quando fu costretto a lasciare gli Stati Uniti per sfuggire ad una incriminazione per evasione fiscale, nominò suo successore Alfred Polizzi; nella metà degli anni Quaranta, a seguito dell’arresto di Polizzi, al potere salì invece il pacato John T. Scalish[18] e vi rimase per oltre trent’anni.
Poco prima di morire, nella primavera del 1976, il vecchio Scalish designò come suo sostituto il riluttante settantaduenne James T. Licavoli, considerato l’ultimo esponente della vecchia “scuola mafiosa” di Cleveland. Era un uomo piacente e senza scrupoli, conosciuto dai suoi con i soprannomi di “Blackie” e “Jack White” per via della carnagione olivastra, da tipico uomo del Sud Italia. Il suo dominio criminale, brutalmente messo in discussione dal sessantunenne affiliato John Nardi[19] – che per questo lasciò la Cleveland Crime Family e passò con il Celtic Club di Greene – coincise con il cambiamento di diversi assetti mafiosi, con il potenziamento delle azioni repressive della polizia (per esempio l’entrata in vigore, nel 1970, della legge federale che perseguiva racket e contrabbando: il Rico Act) ma anche con una escalation di violenza a cui la città non era più abituata.
Vincenzo Licavoli, questo il vero nome di “Jack White”, era nato nel 1904 a St. Louis, nello stato del Missouri, da Domenico Licavoli e Girolama Bommarito, entrambi partiti alla fine dell’Ottocento da Terrasini Favarotta, provincia di Palermo. Cominciò presto a delinquere. A ventidue anni fu coinvolto in una sparatoria con la polizia che si risolse, per lui, con una più lieve (e breve) accusa di trasporto d’arma da fuoco. Spostatosi a Detroit al seguito dei cugini con cui aveva trascorso l’infanzia, i gangsters Thomas “Yonny” e Peter “Horseface” Licavoli, era entrato a far parte della Purple Gang[20]. Condannato per contrabbando, finì in carcere e una volta tornato libero si spostò in Ohio, prima a Toledo e poi nella città sul Cuyahoga, dove si affiliò alla Cleveland Crime Family. I suoi business, al tempo, si concentrarono soprattutto nei casinò di Youngstown, nella Mahoning Valley[21]: furono parecchi gli omicidi e le sparizioni che avvennero nel periodo in cui Licavoli svolgeva questo incarico. Suoi cugini erano anche i fratelli Moceri: il plurimocida Leonardo Calogero (“Leo Lips”), nominato da “Jack White” suo consigliere, e Joseph “Joe Misery”. Entrambi sarebbero stati collegati, secondo alcuni rapporti dell’Fbi, all’omicidio di JFK insieme con Salvatore “Sam” Giancana[22] .
Intanto Greene, divenuto socio di Nardi – «Perché non uniamo le forze? I tuoi nemici sono i miei amici», gli disse – decise di fare la guerra sul serio alla Cleveland Crime Family. E di farla con le bombe.
⊕ La stagione degli attentati. Era il 1976. Il territorio di Cleveland e tutto il Nordest dell’Ohio erano ostaggio della paura e delle macerie. Un giornalista del Cleveland Press scrisse che, tuttavia, ad un certo punto “la gente si era come assuefatta alla violenza sulle strade, nonostante tutto questo causasse morte, distruzione, e avesse, alla base, l’indifferenza verso la vita delle persone”. L’odio di Licavoli verso i due, il “traditore” Nardi e lo sfrontato l’Irlandese, si fece cieco dopo l’omicidio di “Lips” Moceri e lo portò ad allertare alcune famiglie appartenenti a La Cosa Nostra per progettare la sua furiosa vendetta. Erano in tanti a voler togliere di mezzo i due. Anzi, vista la rabbia e l’imbarazzo seguiti all’uccisione di Moceri, i mafiosi “italiani” erano consapevoli che chiunque li avesse uccisi avrebbe guadagnato molta considerazione all’interno dell’organizzazione e, anche, tra gli alleati.
Nel 1977 Greene, sfuggito ormai a diversi attentati e uscito indenne anche da una investigazione della Dea su un traffico di acido fenilacetico per la produzione di metanfetamine, aveva creato insieme con Nardi una joint venture in Texas per rilevare un ranch con molti capi di bestiame: il loro progetto era rivendere la carne, fortemente scontata, ai membri dei sindacati. Ma per realizzarlo c’era bisogno di soldi e così Nardi, attraverso lo zio, invitò nel business anche Paul Castellano, boss dei Gambino a New York, che volle incontrarli per discuterne. Quando, dopo l’incontro, rientrarono a Cleveland, i killers erano pronti ad ammazzarli. Tuttavia anche questo piano fallì.
La bomba che uccise John Nardi esplose nel pomeriggio del 17 maggio 1977 nei pressi dell’ingresso del Consiglio del Sindacato degli Autotrasportatori. Era il 37esimo ordigno che detonava nel giro di un anno nella contea di Cuyahoga. Una Pontiac rubata qualche mese prima a Toledo, imbottita con quindici candelotti di dinamite e posizionata accanto alla sua Oldsmobile 98, saltò in aria non appena il mobster si avvicinò. L’onda d’urto fu così violenta che il suo corpo fu scaraventato a parecchi metri di distanza – dove lo trovarono alcuni passanti, mutilato delle braccia – e il tettuccio in vinile della Pontiac finì al secondo piano dell’edificio in mattoni gialli del sindacato.
Il giorno dopo, intervistato dal Cleveland Press, Greene lanciò un avvertimento agli autori: «Ho un messaggio per quei vermi gialli, e mi riferisco a chi ha ordinato, pagato e compiuto l’omicidio. Queste persone dovranno essere eliminate perché chi le ha pagate non può permettersi di tenerle in vita; coloro che hanno commissionato e pagato il delitto si sentiranno presto riscaldati dall’Fbi e dalle autorità locali».
Il killer dell’Irlandese fu trovato, grazie alla famiglia Genovese, nell’ex Marine Raymond “Ray” Ferritto. Nato in Pennsylvania da una famiglia di origine italiana[23] e associato alla Los Angeles Crime Family, studiò Greene per varie settimane. I suoi movimenti, la sua casa, l’appartamento della fidanzata, il ristorante che frequentava; da una cimice piazzata nel telefono della ragazza scoprì che il 6 ottobre, alle tre del pomeriggio, sarebbe dovuto andare dal dentista, a Lyndhurst. Capì, a quel punto, che il topo era finalmente in trappola. Il 5 ottobre Ferritto, che aveva coinvolto nella preparazione dell’attentato anche un altro associato della Famiglia criminale di Los Angeles, Aladena Fratianno[24], conosciuto come “Jimmy il furetto”, raggiunse la casa di un soldato della mafia di Cleveland già coinvolto in altri atti contro Greene, e insieme confezionarono la bomba. Poi cenarono e guardarono per un po’ la tivù.
Il giorno seguente, alle 14, il killer e altri mafiosi arrivarono con un paio di auto al parcheggio del palazzo Brainard, dove c’era lo studio dentistico, e attesero. Alle 15.25 comparve Greene: parcheggiò in fretta la Lincoln, afferrò dal sedile posteriore l’inseparabile borsa verde contenente armi e munizioni, mise nella tasca dei jeans un’immaginetta sacra della Madre del Perpetuo Soccorso e cercò di contattare un suo uomo con il cerca-persone. Dopo che questi non gli rispose, entrò nel grande palazzo pieno uffici e di ambulatori medici in Brainard Place. I sicari a quel punto parcheggiarono l’autobomba, una Nova rossa, a fianco della Lincoln e si allontanarono. Ferritto, nascosto in auto con il telecomando in mano, era pronto ad azionarlo.
Ci volle un’ora prima che il cadavere dell’irlandese venisse estratto da sotto la Nova. Nonostante fosse dilaniato, aveva ancora l’anello di smeraldo al dito.
«Lui conosceva perfettamente le regole: sapeva che chi vive con le bombe, muore a causa delle bombe», dichiarò quel giorno il tenente Andrew S. Vanyo dell’unità di Intelligence criminale di Cleveland, «e mi diceva sempre che quando sarebbe successo, sarebbe morto per una bomba, non in una sparatoria».
A seguito del delitto, Ferritto divenne il braccio destro di Licavoli e, dopo aver confessato di aver ucciso anche un altro gangster della Los Angeles Crime Family, si accordò con la polizia per farsi meno di quattro anni di carcere: fu una sorta di premio per aver aiutato le autorità a distruggere la mafia a Cleveland. Morì a Sarasota, Florida, nel 2004.
L’anziano Licavoli – l’ultimo padrino, secondo il suo avvocato, un professionista diventato ricco e importante per aver difeso molti boss: «Jack White era uno che aderiva a tutti i codici che abbiamo conosciuto nei film sulla mafia: era un uomo d’onore» – finì a processo per la morte di Greene e, successivamente, fu condannato a 17 anni di carcere con la legge federale Rico. Morì per un infarto in un penitenziario del Wisconsin nel novembre 1985. La Cleveland Crime Family passò nelle mani di “Big Angie” Lonardo, il quale, una volta arrestato, scelse di diventare un informatore del governo e, con le sue dichiarazioni, decimò il sottomondo criminale di Cleveland.
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NOTE:
[1] La sua storia è stata raccontata nel film “Kill the Irishman” (2011).
[2] Cleveland ha una tradizione di attentati esplosivi che risale alla fine dell’Ottocento. Uno degli episodi più eclatanti fu quello della dinamite collocata lungo i binari del tram nel corso del grande sciopero dei dipendenti della Cleveland Electric Railway Co, cominciato nel giugno 1899 e proseguito fino all’autunno seguente per rivendicare migliori condizioni di lavoro, salari più elevati e riconoscimento sindacale.
[3] Il celebre ATF, l’Ufficio di Alcol, Tabacco e Armi da Fuoco, venne costituito alla fine dell’Ottocento all’interno del Dipartimento del Tesoro, quindi trasferito nel 1930 nel Dipartimento di Giustizia e successivamente divenuto una divisione. Tra i più celebri agenti dell’ATF si ricordano Elliott Ness.
[4] Nella lingua dei nativi americani Mohawk, i primi abitanti di questo territorio, significa “fiume tortuoso”, in quella dei Seneca, della Lega Irochese, “il posto della mandibola”.
[5] Affacciato sul lago Erie, diventerà il terzo più grande porto della regione dei Grandi Laghi.
[6] Un giornalista del Plain Dealer, importante quotidiano di Cleveland, aveva scoperto l’esistenza di un fondo edilizio segreto controllato da Greene. La rivelazione portò l’Fbi a condurre una inchiesta che si concluse con l’incriminazione dell’Irlandese per appropriazione indebita, peculato, malversazione e falsificazione dei registri del sindacato.
[7] Greene era stato avvicinato da un poliziotto della Divisione Crimine Organizzato dell’Fbi, Marty Mc Cann jr, anch’egli di origine irlandese, per via dei suoi contatti con altri sindacalisti al centro di alcune indagini. The Irishman stava molto attento a passare loro solamente quelle informazioni che non avrebbero potuto nuocergli. Intratteneva rapporti anche con un altro poliziotto, Edward Kovacic, capo dell’ufficio dello Sceriffo della contea di Cuyahoga. Dopo i primi attentati, Kovacic voleva mettere Greene sotto protezione ma lui rifiutò, convinto che non esistesse una bomba abbastanza potente per ucciderlo.
[8] La grande carestia che si era abbattuta sull’Irlanda tra il 1845 e il 1849 provocando morti (un milione di persone) ed emigrazioni (un altro milione).
[9] Oltre a quanto fuoriusciva dalle ciminiere delle industrie, anche l’incremento del numero dei veicoli e la quantità di emissioni prodotte ha causato, fin dagli anni Sessanta, spesse coltri di smog a New York city e a Los Angeles.
[10] “Art” Sneperger, come era chiamato nel mondo criminale, morì a 31 anni in una esplosione organizzata dallo stesso Greene per punire una sua delazione.
[11] Nato a Cleveland da immigrati italiani, padre di numerosi figli, dopo essere scampato a un attentato organizzato dal suo ex amico Greene nel 1971, e aver tentato a sua volta di ucciderlo, morì con un colpo sparato alla testa dall’Irlandese.
[12] Nato nel 1907 nell’allora impero austroungarico, era arrivato a New York con la famiglia quando aveva appena un mese. Successivamente si trasferì con loro a Cleveland. Durante il Proibizionismo i genitori lavoravano nel contrabbando di alcol per la Cleveland Crime Family, potendo in questo modo assicurare il sostentamento dei quattro figli. Nel 1920 la madre morì per le ustioni riportate in un incendio seguìto ad una esplosione provocata da una fuga di gas nel loro appartamento. Da giovane promessa dello sport, Alex era diventato ben presto un newspaper boy, quindi un contrabbandiere di alcolici, un ladro e un grande amico di personaggi molto influenti della società Ohaiana, il cui silenzio pagava regolarmente. Membro della Diamonds Gang, era finito in manette diciotto volte nell’arco di dodici anni e venne processato due sole volte. Operava con la benedizione dei mafiosi ma godeva di una libertà quasi totale di movimento. Arrestato nel 1942 dagli ufficiali dell’Ufficio immigrazione poiché considerato “nemico straniero” (era ancora cittadino ungherese), grazie ai suoi contatti non venne mai deportato. Venuto ai ferri corti con Greene, tentò di ucciderlo con un ordigno collocato sotto l’auto. Morì un freddo Sabato santo del 1975 per l’esplosione della sua Cadillac Eldorado.
[13] Una delle Cinque Famiglie mafiose di New York
[14] “Big Joe” era il secondo di quattro figli. Era conosciuto come il “padrino” e “u’ baruni” dagli italiani del suo quartiere, a cui prestava denaro a strozzo e forniva gli alambicchi per la produzione del moonshine, il liquore illegale.
[15] Costituita nella Little Italy di Cleveland. Nel primo decennio del Novecento in città erano attive diverse gangs italiane: oltre alla Mayfield Road Mob la Collinwood Crew, la Serra Gang, la Benigno Gang.
[16] Nato in provincia di Reggio Calabria, insieme con il fratello Anthony “Tony” Milano cominciò l’ascesa criminale praticando estorsioni rivendicate dalla Black Hand. Tony (padrino del figlio di “Big Joe”, Angelo) controllava diversi sindacati dei lavoratori di Cleveland e uno dei suoi quattro figli divenne membro della Los Angeles Crime Family.
[17] Istituita al termine della “Guerra castellammarese” con i rappresentanti delle Cinque Famiglie di New York: Genovese, Gambino, Lucchese, Bonanno, Colombo.
[18] John T. Scalish, soprannominato “Johnny Scalise”, è stato il più influente boss della Cleveland Crime Family e uno dei componenti della Commissione nazionale della Cosa Nostra. Nato nel 1912 a Cleveland da Francesco Scalise e Margherita Zito, entrambi di Carini (Palermo), cercò, nei suoi anni di reggenza, di evitare al massimo la violenza e le interferenze delle forze di sicurezza, concentrando le attività soprattutto nel controllo del gioco d’azzardo, dei prestiti ad usura, nella malversazione e nella corruzione. Capomafia molto rispettato e amico di politici e giudici dello Stato, si alleò con Chicago Outfit e la famiglia Genovese. Nel 1957 prese parte al celebre meeting nella residenza di Joseph Barbara, ad Apalachin, a nord di New York, a cui parteciparono un centinaio di mafiosi provenienti da tutti gli Stati Uniti, da Cuba, dall’Italia. Morì il 26 maggio 1976 durante un intervento chirurgico al cuore.
[19] Nato nella Little Italy di Cleveland con il nome di Giovanni Narchione, era il marito della nipote di Anthony Milano (il vice boss della Cleveland Crime Family durante la “gestione” del fratello Frank) e figurava come partner in diverse companies di jukebox e distributori automatici. Era stato nominato segretario-tesoriere dei trasportatori di distributori automatici. Più volte accusato di varie reati (minacce, cospirazione, gioco d’azzardo tra più Stati, traffico di droga) non era mai stato incriminato nonostante gli agente federali e la polizia locale avessero ben chiaro che Nardi era uno dei più influenti membri della criminalità organizzata del Nordest dell’Ohio.
[20] Alleata alla Chicago Outfit, era la più temuta organizzazione criminale di Detroit. Era una confederazione di gruppi costituita nel 1920 e dedita al controllo del gioco d’azzardo, del contrabbando di liquori e del traffico di droga. Ha perso via via il proprio potere a causa di cruente guerre tra gangs, negli anni Trenta.
[21] Sulla Mahoning Valley rimando alla mia ricerca “Ohio, 1924. La rivolta degli italiani contro l’odio del Ku Klux Klan” su www.monicazornetta.it .
[22] Nato nel 1908 a Chicago da Antonio e Antonia Giancana, originari rispettivamente di Partanna e Castelvetrano, nel Trapanese, Salvatore detto “Momo” si approcciò molto presto al crimine. Fu guardia del corpo di Al Capone e successivamente boss della Chicago Outfit; controllava con il pugno di ferro il traffico di droga, il gioco d’azzardo, la prostituzione e il giro di scommesse clandestine. Molto vicino ai sindacati e alla politica, ebbe rapporti stretti con la famiglia Kennedy a partire da Joe, il “grande vecchio”, e fu proprietario di alcuni fra i più importanti casinò di Las Vegas. Il figlio di Joseph Bonanno, ma anche Peter Licavoli, rivelarono che ci sarebbe stato anche Giancana dietro ai delitti di John Fitzgerald e del fratello Robert Kennedy.
[23] I genitori erano Michele “Michael” Ferritto e Rosa “Rose” Fracassi.
[24] Nato a Napoli nel 1913, più volte arrestato per rapina ed estorsione, nel 1977 fu incriminato per la morte di Greene ma, terrorizzato dall’idea di essere assassinato anch’egli, divenne testimone protetto dal governo e con le sue dichiarazioni mandò in galera molti mafiosi. Condannato a cinque anni di carcere scontò solo 21 mesi. Era entrato nella famiglia di Los Angeles nel 1940 e aveva confessato di aver commesso cinque omicidi e di aver partecipato all’esecuzione di altri sei. Morì in Oklahoma nel 1993. Sulla sua vita sono stati scritti due libri: “The last mafioso” (1980) e Vengenace is mine”(1987). Il suo personaggio è stato descritto da Martin Scorsese anche nel film “The Irishman” (2019).
NB. Foto copertina: Plain Dealer Historical Archive, Cleveland (OH)
Fonti:
“The rise and fall of Cleveland Mafia”, R. Porrello (1995, Barricades Books Inc.)
“To kill the Irishman. The war that crippled the mafia”, R. Porrello (2001, Next Hat Press)
“Mob Rats. Danny Green”, J. Bruno (2014, Knickerbocker Publishing )
“Paddy Whacked: The untold story of Irish American gangster”,T. J. English (2016, Reganbooks)
“Bombs, bullets and Bribes. The true story of notorious Jewish Mobster Alex Shondor Birns”, R. Porrello (2019, Next Hat Press)
https://www.cleveland.com/moviebuff/2010/08/cleveland_gangster_danny_green.html
http://www.clevelandmemory.org/crime/index.html
https://themobmuseum.org/blog/tag/cleveland/
https://www.heraldtribune.com/article/LK/20040513/news/605216399/SH
https://www.licatanet.it/licatesi-una-volta-in-america-armati-e-divisi/
https://case.edu/ech/articles/g/greene-daniel-j
https://www.cleveland.com/pdextra/2011/02/union_boss_nardi_dies_in_bombi.html
https://ohiohistorycentral.org/w/Cuyahoga_River_Fire
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