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Siamo la specie più invasiva che esista in natura. E siamo anche la più prepotente: fin dalla nostra comparsa su questo pianeta abbiamo infatti contribuito, con sorprendente zelo, all’estinzione di flora e fauna selvatica. Aristotelicamente convinti di essere al centro di tutto e metro di misura di ogni cosa, fatichiamo ad accettare la coesistenza con gli altri esseri viventi, soprattutto se si tratta di animali selvatici, e non appena uno di loro, seguendo il proprio istinto di “animale”, “viola” le nostre leggi e le nostre proprietà, lo eliminiamo. O riteniamo sia “naturale” farlo.

Abbattiamo perciò il lupo che azzanna il bestiame; la volpe che fa razzia nei pollai; il cinghiale che rovista nei cassonetti colmi di sacchi di rifiuti mal sigillati; l’orso che fa incetta di frutta negli orti o che arriva ad ucciderci quando si sente da noi minacciato. Quello tra civitas e silva, tra la civiltà umana e la natura selvatica è un conflitto antico che si sta aggravando con l’aggravarsi di alcune condizioni della contemporaneità: l’incessante espansione delle aree urbanizzate, la costante erosione degli habitat naturali, la cattiva gestione della fauna selvatica, la crisi climatica e l’acuirsi della lotta per le risorse naturali. È un conflitto permanente che mette a rischio la conservazione stessa della biodiversità, come hanno ribadito la primavera scorsa ad Oxford i partecipanti alla prima conferenza mondiale per la coesistenza con la fauna selvaggia e come racconta anche la giornalista americana Mary Roach nelle 323 pagine del suo documentatissimo saggio “Wanted!”, edito in Italia da Aboca.

Che non sia facile trovare un punto di incontro, un compromesso, tra le ragioni degli 8 miliardi di nostri simili e quelle della wildlife, Roach lo dice subito: “Duemila specie animali in duecento Paesi commettono regolarmente atti che le portano a entrare in conflitto con gli umani. E ogni conflitto richiede una soluzione adatta a quel particolare ambiente, a quella particolare specie, agli interessi in gioco e alle parti in causa”. Basandosi sulle numerose esperienze raccolte negli anni in ogni parte del mondo, l’autrice descrive in maniera approfondita i modi e i motivi per cui gli animali “infrangono” le norme stabilite dagli uomini e si sofferma sulle strategie di questi ultimi per evitare che la convivenza tra le parti si riveli dannosa per l’una o per l’altra. Il problema, ha spiegato l’anno scorso Roach in un’intervista alla National Public Radio americana, non verte solo nell’identificazione “dei singoli orsi o puma che possono aver danneggiato un essere umano: c’è anche quello, generale, degli orsi che invadono la civiltà” e ciò, “naturalmente, è il riflesso di un’altra invasione: quella della civiltà ai danni degli habitat degli orsi”.

Con tale consapevolezza, in molti stati Usa si è lentamente passati da una guerra ingaggiata contro la fauna selvatica  ad una germinale volontà dei governi e delle loro organizzazioni, degli esperti e di una fetta sempre più consistente di popolazione di impegnarsi per proteggerla. Questo non significa che i “forastici” non soccombano più: i 2 milioni abbattuti nel 2021 dal Dipartimento dell’Agricoltura allo scopo di limitare i danni provocati non agli esseri umani ma all’industria agricola e al bestiame, parlano chiaro; eppure, secondo Roach, è una volontà che rappresenta un mutamento di passo dalla portata epocale. La scelta compiuta dagli specialisti del conflitto uomo-fauna selvatica del Colorado di spostare l’attenzione dallo studio del comportamento animale a quello umano per sostituire agli spargimenti di sangue il dialogo, la conoscenza delle regole (“anche il tuo quartiere è il paese degli orsi”, “la spazzatura uccide gli orsi” etc) e le soluzioni condivise, rispecchia tutto ciò.

Se ci pensiamo, la cultura di un Paese e di un emisfero rispetto ad un altro gioca un ruolo chiave nella risoluzione dello “scontro”: “Wanted!” racconta, per esempio, che in India la soppressione volontaria degli animali selvatici è una soluzione inimmaginabile. Nel nord del Bengala, “dove ogni anno gli elefanti selvatici uccidono, in media, 47 persone e ne feriscono altre 164”, il governo non ordina carneficine. “Se un abitante del villaggio avvista un elefante o un branco” sa che deve chiamare un numero verde e lasciare “che se ne occupi una squadra della guardia forestale. Gli elefanti sono animali sociali e stanno più calmi se vengono allontanati tutti insieme, e così i rangers convergono su di loro ai fianchi e spostano l’intero gruppo in direzione della foresta da cui è venuto”.

Al contrario l’Occidente, Italia compresa, continua a propendere per l’abbattimento della fauna, come testimoniano i recenti fatti di cronaca. “Se la gente riuscisse a liberarsi della propria rabbia forse troverebbe approcci al tempo stesso più benigni e più efficaci”, auspica Mary Roach, che nel libro mettere nero su bianco una (provocatoria) possibilità: “E se accettassimo il rischio? E se scegliessimo di vivere non solo con un orso che di tanto in tanto ti entra in cucina, ma con la probabilità che qualcuno a un certo punto venga ucciso da questo orso? Facciamo volare gli aerei anche se ogni tanto si schiantano e le persone muoiono. La differenza è che le compagnie aeree grazie ai loro ricavi coprono le spese dell’assicurazione e delle cause legali”.

Monica Zornetta (L’Economia Civile – Avvenire, 31 gennaio 2024)