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04/11/2015“Silvia, finirai male”. Mi sembra ancora di sentirla, mia madre, la mattina d’autunno in cui me ne vado di casa. E’ il 1958, ho ventun anni, i miei risparmi, un soprabito troppo leggero e una valigia troppo pesante da portare. La trascino sollevando da terra piccoli cumuli di polvere e di sporcizia. Percorro lo stradone che termina alla piccola stazione, quasi a ridosso della montagna, senza voltarmi: voglio solo trovarmi al più presto lontano dal paesello e raggiungere l’agognato successo, magari sfondando nel cinema. “Nessuno mi fermerà”, pensavo.
Le cose non sono andate proprio così. E oggi che ho settantotto anni, e da più di dieci ho smesso con quella vita, lo posso serenamente ammettere. Ho guadagnato tanto, non lo nego. Ho fatto carriera nell’immobiliare,ho comprato la macchina per mio padre, una casa per i miei e un albergo ai piedi della montagna con cui loro potessero fare affari. E’ stato un modo per riconciliarci.
Mi sono concessa il lusso di lavorare senza un macrò (protettore, nda) e di vivere negli hotel più sfarzosi d’Europa, amando, riamata, principi e marchesi, industriali, registi, attori, produttori, politici, imprenditori. Ho adescato uomini al volante della mia Spider argento, quella che ho poi regalato a un dolce ragazzo dopo una notte di passione; ho giocato tanto, e perso molto, nei casinò. Sono arrivata a indossare le mie dieci pellicce come fossero vestagliette da camera. “Non ho mai visto una donna fare il bidet con una cappa di lince”, mi aveva detto una volta, incredulo, un giovane amante.
Di amori ne ho avuti tanti, durati però il tempo di una notte, di una settimana, qualche mese; mai di più. Ed è esattamente questo che nella mia vita pazza è mancato: l’amore, quello vero. L’ho sempre tenuto lontano, convinta che mi avrebbe fatto perdere tempo e opportunità.
A vent’anni non volevo più di fare l’operaia. Avrei voluto andarmene anche prima, ma i miei non ci pensavano proprio: “Quando sarai maggiorenne farai quello che dici tu”, mi ripetevano. Finché, nel 1958, riuscii a salire su quel treno.
Forte dei Marmi, Montecatini, Viareggio, Massa Carrara. Quell’estate avevo cominciato una vita nuova, in tutti i sensi. Di giorno stavo in spiaggia: l’abbronzatura era considerata molto chic in quegli ambienti; la sera andavo al Cafè concerto, alla Capannina, alla Bussola o da Oliviero, i locali più alla moda della Versilia, dove, vestita Chloè, Saint Laurent, Dior, Fendi, ballavo, giocavo a carte con alcuni famosi attori italiani o conoscevo uomini affascinanti con cui concludere la serata in intimità. La cosa buffa è che ero vergine e lo sarei rimasta per altri cinque anni a causa di un disturbo che ha richiesto l’intervento di un chirurgo.
A Roma ci sono arrivata nei primi mesi del 1960 da Palermo, dove, tra zagare e buganvillee, vivevo e lavoravo. Roma era nel fiore della dolce vita e si preparava per le Olimpiadi. Si respirava una gran voglia di divertirsi, di entusiasmarsi, di sognare. Via Veneto sembrava essere il centro del mondo. Abitavo a pochi passi da lì, in un famoso grand hotel in via Ludovisi, nella cui hall incrociavo clienti importanti e giovani playboy, con alcuni dei quali mi piaceva intrattenere fugaci
relazioni. Mi si poteva trovare al Cafè de Paris, al Doney, al Club 84, al ristorante Sains Souci, al night Pipistrello. Seduta, una gamba maliziosamente accavallata sopra l’altra, i capelli biondi sciolti sulle spalle nude, accendevo una sigaretta mentre sorseggiavo il mio drink.
Qualche anno più tardi, grazie a un produttore, ho partecipato a un provino per il film “La ballata dei mariti”. “Signorina, il suo viso è molto bello ma il corpo è troppo procace, non va bene per la parte”, mi aveva detto il regista in coda all’ultima battuta, aggiungendo tuttavia che ci sarebbe stata la possibilità di fare la generica. “No grazie, non mi è mai interessato partire dal fondo della scala per arrivare in cima”. Il film uscì l’anno dopo, nel ’64, mentre da Montecarlo, dove mi ero trasferita, stavo organizzando il mio futuro a Milano. Quanto mi sono divertita lì! A Milano dal ’65 a metà degli anni ’80 ho toccato le stelle, quanto a privilegi e ad amicizie nell’alta società. Lavoravo negli hotel di lusso e in appartamenti nelle zone più esclusive della città ma di tanto in tanto mi svagavo facendo la taxi girl o frequentando qualche noto locale della “mala” insieme alla donna del gangster Angelo Epaminonda.
Ero di casa al Divina, al Primadonna, al Nepentha, al Piper, che pullulavano di ragazzi bellissimi, di stilisti, di cantanti. Quando le discoteche chiudevano, ci spostavamo nei club privati dove le follie continuavano fino all’alba. Succedeva pure che noi ragazze ci sfidassimo in gare automobilistiche lungo via Larga, ciascuna a bordo della propria quattro ruote fiammante.
Potrei andare avanti così, a raccontarvi un episodio dietro l’altro. Mi sembra di sfogliare le pagine di un romanzo dedicato alla passione, alla sensualità e al piacere. Quel romanzo che, chissà, forse un giorno mi deciderò a scrivere.
Monica Zornetta (F n. 32, agosto 2015)