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02/11/2015C’è la minuscola tela grigia tagliata di netto, proprio al centro, dal poliedrico musicista giapponese residente da tempo a New York, Ryūichi Sakamoto, per far fuoriuscire le luci e le oscurità che stanno dietro; c’è la figura umana seduta e ultra cromatica di Ghassan Abu Laban, acclamato artista israeliano nato a Betlemme nel ’64, che usa trarre ispirazione dal mondo che lo circonda più che dalla storia dell’arte. C’è la pila della pace che spicca sul’arcobaleno di smalto dello street artist paulista ed ecologista Eduardo Kobra, più abituato a lavorare sulle enormi facciate delle metropoli del mondo che su opere di piccole dimensioni, e c’è “Syria Pixels”, l’omaggio dei giovani artisti siriani Zaher Omareen, Ammar Al Beik, e altri, al collage, ai graffiti e ai film girati con il telefono cellulare, lo strumento grazie al quale quattro anni fa è potuta sbocciare, anche in Siria, la primavera araba.
Insieme a questi ci sono gli altri 6925 (per un totale di 6930) artisti provenienti da oltre quaranta Paesi del mondo, ciascuno diverso dall’altro per latitudine e condizione sociale, economica e politica – dalla Grecia all’Italia, dalla Svezia alla Tunisia, dall’Egitto al Tibet, dall’Iran alla Corea del Nord, dall’Afghanistan alla Nigeria – e tuttavia unito dal formato mignon delle opere realizzate per il progetto globale Imago Mundi – Luciano Benetton Collection: 10 x 12 centimetri. Le misure di una cartolina.
Trentotto collezioni di artisti affermati e di giovani promesse che dal 1° settembre al 1° novembre tracciano, nelle sale della prestigiosa Fondazione Cini all’isola di San Giorgio a Venezia, per l’occasione allestite dall’architetto Tobia Scarpa, parte dell’originale e un po’ folle mappa dell’arte nuova sognata e realizzata dall’imprenditore, e ormai mecenate a tempo pieno, Luciano Benetton con questo progetto artistico “no profit”. Una impresa nata per caso nel corso di un suo viaggio sudamericano, e cresciuta a ritmi a dir poco vertiginosi nel giro di qualche anno appena.
“Mi trovavo in Cile per incontrare alcuni artisti che esponevano in gallerie d’arte. Quando chiesi loro i biglietti da visita, ci fu uno che mi disse che me lo avrebbe dato il giorno dopo in albergo. L’indomani mi consegnò invece un piccolo quadro, di 10 centimetri per 12, vale a dire la misura della tela che probabilmente aveva a disposizione in quel momento. Quella è diventata la misura anche di tutte le opere che sono arrivate dopo; opere che io ho cercato e commissionato in tutto il mondo”, ha raccontato il “signor Luciano” al termine della breve conferenza con i curatori e la stampa nel suggestivo chiostro palladiano affacciato sul bacino San Marco.
Un nome antico, Imago Mundi, che si rifà alla cartografia, o meglio, alla carta scritta all’alba del Quattrocento dal teologo francese Pierre d’Ailly, e studiata da Cristoforo Colombo prima del suo celebre viaggio nelle Americhe, al cui significato Benetton e la sua Fondazione Studi Ricerche di Treviso aggiunge nuovi eterni valori come la bellezza, la libertà e, perché no, l’utopia.
“Certo, l’utopia di un mondo senza confini, senza barriere politiche, ideologiche, religiose. Dove si lavora per il bello. Perché, per come la vedo io, l’arte può davvero salvare il mondo”, dice, concedendosi agli scatti dei fotografi, “e lo salverà”.
L’ottantenne creatore dell’impero Benetton e, insieme con il fotografo Oliviero Toscani, del centro internazionale per le arti e la ricerca della comunicazione “Fabrica” di Treviso, tocca più volte il concetto di democrazia applicato ad Imago Mundi: “Non ci sono contrapposizioni tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud. Qui l’arte è davvero transnazionale”. E pure transgenerazionale e interclassista, come svelano molte delle collezioni esposte. Da “Painting the dreaming”, con le opere di 210 artisti aborigeni australiani, a “Native art visual visions”, degli indiani nativi del nord America, da “Bushmen from Kalahari” a “Philippines: Inter Tropical Convergence Zone”, che riunisce la frammentaria geografia dell’arcipelago filippino, composto da oltre settemila isole, da “Mexico: The Future is Unwritten” fino alla poliedricità di “Organix”, con 270 piccole opere che parlano dell’uomo, della natura, della società e che portano la firma di artisti americani contemporanei: filmmakers, video artists, fotografi, illustratori, pittori, musicisti.
“Imago Mundi si sta concentrando molto sulla realtà dei nativi di tutto il mondo e in via di organizzazione è un catalogo specifico sull’arte curda, la cui gente vive sparsa fra quattro Paesi”, ha aggiunto il suo entusiasta ideatore. “Entro il 2015 puntiamo inoltre ad avere più di ventimila artisti provenienti da cento Stati”. A fabbricare il mondo, dice ancora, è il pensiero artistico: “Il moto delle idee che attraversano i confini, dialogano tra loro e creano collegamenti”.
Proprio come è accaduto nel progetto “From Amman to Homs: art as resistance”, inserito nella collezione “Syria off frame”, che conta la presenza di diverse generazioni di artisti, provenienti da tutta la Siria, ma anche rifugiati in altri Paesi. “Si tratta di una iniziativa politicamente interessante, poiché presenta l’arte come forma di resistenza”, ha spiegato la curatrice, Donatella Della Ratta. “In essa sono presenti artisti che, a dispetto delle difficoltà, hanno dato vita ad un progetto creativo originale, ricco di significati, nato via skype dai campi profughi. Gli artisti vorrebbero che il mondo non parlasse della Siria solo per l’Isis e per le distruzioni che mette in atto ma che cominciasse a raccontare finalmente delle persone, dell’arte, della cultura e della bellezza di questo straordinario Paese”.
E a chi lo accusa di “rattrappire” l’arte riducendola a coriandolo, Benetton che cosa risponde? “Che anche i viaggiatori olandesi del Seicento avevano nelle loro valigie delle opere molto piccole (lo stesso Vermeer dipingeva quadri dalle dimensioni ridotte, ndr): quelle stesse che adesso sono custodite nei musei di tutto il mondo”.
Monica Zornetta (Left, n.35, 12 settembre 2015)