Canto, suono, denuncio: in Medio Oriente la protesta arriva dal punk
10/01/2025Peter Kennard è senza dubbio il più importante artista e attivista britannico del dissenso degli ultimi cinquant’anni. Una «dinamite politica», lo ha definito il Guardian, una voce libera e coraggiosa che con i suoi fotomontaggi radicali, nati da fotografie ritagliate e poi riassemblate per creare nuove immagini e nuovi contenuti, ha delimitato i contorni della protesta moderna.
Trasformate in cartelli e manifesti, le sue opere, a volte scioccanti, a volte dissacratorie, ma in ogni caso geniali, sono state la chiave di volta di numerosissime campagne di denuncia politica e sociale fin dagli anni Settanta: molto popolari – tra le tante – quelle sul disarmo nucleare, la povertà, la crisi climatica, le guerre, i fascismi, il confitto nordirlandese, le storture del Thatcherismo e della politica americana.
Arrivato oggi alla soglia dei 76 anni con le affilate “armi” ancora ben salde in mano – e cioè pennelli, carta, colla, cutter, gelatina ai sali d’argento, inchiostro, grafite, colori a tempera – , Kennard continua a sfidare lo status quo e a smascherare le ingiustizie e i silenzi che avvelenano il mondo. Lo fa anche attraverso i social, come è successo di recente quando, in un video di sette minuti, ha contestato il bavaglio che l’establishment internazionale dell’arte ha messo ad eventi e ad artisti che supportano la resistenza di Gaza, denunciano il genocidio per mano di Israele o che collaborano con artisti palestinesi. «Gli operatori del mercato dell’arte non possono nemmeno firmare una petizione pro-Palestina perché i collezionisti e i galleristi glielo impediscono. Tutto questo è disgustoso. Ritengo invece importante, di fronte anche al silenzio dei leaders Occidentali, che gli artisti di tutto il mondo parlino apertamente di quanto che sta succedendo poichè questo entrerà nella storia come il più tremendo evento mai vissuto da moltissimi di noi, dopo Hiroshima».
È con tale spirito che, fin dai tempi delle mobilitazioni contro la guerra nel Vietnam, Peter Kennard ha fatto uscire il proprio lavoro dal mondo ovattato dell’arte per renderlo «braccio visivo» della disobbedienza civile e veicolo di un contro-discorso democratico con cui confutare gli inganni e il cinismo di una contemporaneità dominata dalle corporations.
Considerato l’ultimo discendente di un “lignaggio artistico-politico” che va da John Heartfield a Bertolt Brecht fino ai Situazionisti francesi, di lui Harold Pinter ha detto: «Vede bene il cranio sotto la pelle: un’area dominata dall’avidità, dall’indifferenza, dalla spietatezza, dalla forza nuda contro gli impotenti», mentre per Naomi Klein il suo «lavoro cattura perfettamente le brutali asimmetrie del nostro tempo».
Non è un caso, perciò, che tra i tanti artisti di cui è stato maestro ci sia anche il celebre Banksy, con il quale ha partecipato ad alcune edizioni del progetto Santa’s Ghetto (a Oxford Street, nel 2006, e a Betlemme, nel 2007, entrambe con l’artista scozzese Cat Phillipps) e realizzato l’opera Watch Tower. E non è un caso, altresì, che le sue opere siano state esposte in tutto il mondo e che figurino nelle collezioni permanenti di istituzioni culturali britanniche di primissimo piano come la Tate Gallery, il British Museum, il Victoria and Albert Museum e l’Imperial War Museum.
È una nota di merito persino la censura subita nel 1985 dal Barbican su due opere (lì esposte) che denunciavano il golpe di Pinochet e le esecuzioni allo stadio Nazionale di Santiago del Cile. Il motivo: avrebbero potuto turbare gli animi dei funzionari cileni e dei banchieri britannici che al cinema Barbican, attiguo alla mostra, stavano discutendo d’affari.
«L’arte radicale e la politica convergono in tempi di crisi, e questo sta accadendo ora», ha dichiarato Peter Kennard nel 2008 sul New Statement, e oggi, con i nuovi lavori incentrati soprattutto sulle guerre in Ucraina e in Palestina, sulla repressione sistematica del diritto di critica e su ciò che si cela dietro le immagini con cui i media ci bombardano quotidianamente, riafferma questo pensiero.
Nato nel quartiere londinese di Maida Vale nel 1949, l’anno di fondazione – ironia della sorte! – della Nato; padre del giornalista investigativo Matt Kennard; nonno di quattro nipoti e docente di Arte Politica al Royal College of Art, a lui la Whitechapel Gallery di Londra dedica fino al 19 gennaio la mostra The Archive of Dissent, supportata dal collettivo a/political e dalla Richard Soulton Gallery.
Non si tratta di una “semplice” esposizione d’arte: quella allestita nelle tre sale della galleria che a lungo è stata la biblioteca pubblica del poverissimo quartiere di Whitechapel, è, insieme, originale deposito di storia sociale e politica, archivio e atelier d’artista.
Tra la notevole quantità di opere realizzate negli anni con le tecniche più diverse ci sono posters ed esperimenti visivi a parete, copie di giornali e riviste che hanno pubblicato i suoi fotomontaggi e poi una quarantina, o forse più, di spettacolari fotomontaggi: dal selfie di Tony Blair davanti a un’esplosione di petrolio a un Donald Trump sottomarino, dai lugubri ritratti/montaggi di Margareth Thatcher a quello, mortifero, di Henry Kissinger passando per Walter Benjamin, la serie Earth e un Nelson Mandela che spezza un cartello in cui è riportato lo slogan-simbolo dell’Apartheid.
La mostra presenta anche le nuove installazioni Boardroom e Double Exposure, che utilizzano luce, vetro, metallo e proiezioni di volti anonimi per decostruire il processo del fotomontaggio, ma anche Worktop 1966-2024, realizzato appositamente per l’evento, che raccoglie in un tavolo vario materiale scelto da Kennard tra riviste, libri, foto, cartoline, bozzetti, maschere antigas, mappamondi insieme ai suoi preziosi strumenti di lavoro.
Infine, The People’s University of the East End, del 2024, accoglie il visitatore come un vivace corteo di manifestanti del dissenso (proprio quel dissenso che in tutto l’Occidente è sempre più sotto attacco): è una platea di cartelli pieni di immagini, scritte e interventi pittorici, collocati su cavalletti, che l’artista ha provocatoriamente circoscritto con il nastro bianco e blu usato dalla polizia inglese nelle scene del crimine. Accanto all’immagine di Julian Assange con i vessilli americani e britannici, Peter Kennard ha sistemato una serie di fotomontaggi di grande impatto che comprendono un albero di filo spinato troneggiante in una Siria devastata, abitata solo dalla sofferenza delle vittime civili, destinate a diventare rifugiati; alcuni dipinti delle bandiere palestinesi e ucraine, talvolta cancellate, talvolta intrise di sangue, e altri montaggi realizzati negli anni in occasione di storiche campagne pacifiste e antimilitariste.
Monica Zornetta (Domani, 17 gennaio 2025)
Il pdf: pdf-2025-01-16-DOMANI-NAZIONALE-DOMANI-15.pdf