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12/03/2024Il giorno dell’atteso annuncio, un umido pomeriggio d’ottobre di due anni fa, all’esterno del St James’ Park di Newcastle era tutto uno sventolare di bandiere bianconere e rosso-blu, di Union Jack e striscioni. I mille e più tifosi che si erano radunati fuori dallo stadio, chi esibendo la maglia a strisce verticali d’ordinanza, chi il berretto o la sciarpa del club, intonavano a squarciagola “We are the Geordies/ the Geordie boot boys” sulle note di “You are my Sunshine”; altri, travestiti da improbabili sceicchi, esultavano euforici davanti alle statue di Sir Bobby Robson e Alan Shearer facendosi largo tra le nuvole di fumo e qualche esotico vessillo dello stato saudita agitato sopra la marea di smartphone.
Sulla riva nord del fiume Tyne, quel 7 ottobre 2021 l’aria era carica di goccioline d’acqua e di elettrica eccitazione dopo che la Premier League aveva ufficializzato la vendita del Newcastle United per oltre 300 milioni di sterline ad un consorzio composto dal Fondo di Investimento Pubblico dell’Arabia Saudita (il PIF, per l’80%), dalla PCP Capital Partners della businesswoman britannica Amanda Staveley e dalla RB Sports & Media dei fratelli David e Simon Reuben. D’altro canto, tra i fan delle Megpies, le gazze, come viene affettuosamente chiamato il club, e Mike Ashley, il tycoon che 14 anni prima lo aveva acquistato con la promessa (non mantenuta) di riportarlo ai vecchi fasti, non era mai corso buon sangue. Questa aspra ostilità non si era placata nemmeno dopo la vendita al consorzio, cosicché, quel giorno d’autunno, i tifosi avevano voluto rimarcarla cantando “We all hate Mike Ashley”.
Se alla gran parte di loro, tuttavia, poco o nulla importava della conditio sine qua non imposta al Fondo dalla Premier League – che la Monarchia, cioè, non controllasse la società calcistica – né del “silenziamento” delle voci degli oppositori esercitato nei ricchissimi Stati del Golfo, agli attivisti internazionali per i diritti umani e a molti supporters della squadra riuniti nell’associazione “NUFC Fans Against Sportswashing”, la faccenda interessava. Eccome, se interessava.
Proprio nei giorni del febbrile entusiasmo bianco-nero alcune ong avevano perciò denunciato ai vertici del massimo campionato inglese e al governo del Regno Unito le violenze, gli abusi, le violazioni dei diritti umani di cui erano (e sono) responsabili quei Paesi del Medioriente proprietari di alcuni clubs della League: non solo l’Arabia Saudita del Newcastle United e dello Sheffield United, ma anche gli Emirati Arabi Uniti del Manchester City e il Qatar, la cui proposta di acquisto dell’altro, e più antico, club di Manchester, lo United, è stata del resto rifiutata alcune settimane fa per via delle insufficienti garanzie finanziarie fornite.
Le assicurazioni di indipendenza del PIF dallo stato saudita sono carta straccia, aveva affermato in un incontro pubblico Lina al-Hathloul, un’attivista dell’Ong Alqst la cui sorella, Loujain, è stata condannata a molti anni di prigione per il suo impegno in favore dei diritti delle donne arabe.
«Basta vedere chi siede sulla poltrona di presidente: Mohammed Bin Salman […] Per mezzo del PIF il governo del Regno utilizza il Newcastle come strumento per spingere la propria agenda, veicolare il proprio soft power e coprire le gravi violazioni che commette». Come prova del “mortale intreccio”, al-Hathloul aveva portato una videointervista in cui il governatore del Fondo e chairman del Newcastle United e della compagnia petrolifera Saudi Aramco, Yasir al-Rumayyan, ammetteva che le decisioni prese dal Cda potevano essere rovesciate nel caso di disaccordo del principe ereditario. “Newcastle è come un grande cartellone pubblicitario per l’Arabia Saudita”, aveva aggiunto, “ma i tifosi hanno il grande potere di cambiare le cose”.
Da allora, però, a cambiare è stato solo il piazzamento del club nella classifica di questa stagione, precipitata in poche settimane dalla sesta alla decima posizione o giù di lì dopo una clamorosa serie di sconfitte (e di infortuni) abbinata a ben pochi successi: eliminata lo scorso novembre dalla Carabao Cup, a dicembre è stata estromessa anche dalla Champions League. Ma i suoi sostenitori – tra cui big come Sting, Sam Fender, Brian Johnson, Tony Blair e Mark Knofpler, l’autore dell’inno della squadra, “Going Home: Theme from the Local Hero” – sono celebri per la pazienza, la perseveranza e per la grande fede che ripongono nella bandiera: non è un caso che il nome di una loro fanzine sia “True Faith”, che il loro tifo sia da sempre considerato il più fervente e appassionato di tutto il Regno Unito e che fino al 2011 in molti usassero disperdere le proprie ceneri e quelle dei famigliari all’interno del “sacro suolo” dello stadio.
Non solo a Newcastle upon Tyne ma in tutto il Regno Unito il calcio è vissuto come qualcosa di più mistico e spirituale di un “semplice” sport: è una “religione laica” che trova nei supporters i propri fedeli e nella capacità di attribuire loro un senso di identità e di appartenenza, riempendo vuoti esistenziali e sanando frustrazioni e umiliazioni, la propria inesauribile forza.
Fondata su specifici comandamenti e precetti, dotata di precisi simboli e misteri, contraddistinta da caratteristici inni ed espressa attraverso riti e liturgie officiate all’interno di particolari templi da speciali sacerdoti, questo “culto” riconosce e celebra, inoltre, i propri “santi”, che provvede poi ad offrire alla perenne devozione dei tifosi. Kevin Keegan, sir Bobby Robson, Alan Shearer, Paul Gascoigne, Bobby Moncur, Joe Harvey, Jackie Milburn sono alcuni tra i nomi dei grandi atleti che “risplendono” nel firmamento del club.
Per comprendere pienamente che cosa intendesse Nick Hornby quando, in “Febbre a 90”, sosteneva che il calcio e la vita sono due facce della stessa medaglia, basta fare un giro all’esterno del St James’ Park, in pieno centro città, poco prima dell’inizio di una qualsiasi partita.
Il calore e l’entusiasmo dei milioni di fans che raggiungono pacificamente la “casa” del Newcastle United, talvolta anche insieme con i supporters delle squadre avversarie, hanno sostituito l’odio e l’aggressività incarnate per oltre mezzo secolo dagli Hooligans. Episodi di violenza, culminati con arresti e condanne a diversi anni di carcere, sono avvenuti, per la verità, anche in tempi recenti: i più gravi nel 2002 e nel 2003 tra i Newcastle Gremlins e i Seaburn Casuals (ultras del Sunderland AFC, rivale storico delle gazze), ma le stringenti misure anti-hooliganismo e le leggi varate negli anni dai governi e dalle società inglesi hanno inferto un colpo pressoché mortale al fenomeno.
Fiera della sua squadra fondata nel 1892 e della resilienza che la caratterizza, del suo stadio inaugurato quello stesso anno e ampliato nel 1998 (un ulteriore nuovo progetto di espansione è sul tavolo dal 2023), dell’affetto dei tifosi, della sua lingua, il geordie, della sua storia, delle invenzioni con cui ha contribuito al progresso dell’umanità – la lampada ad incandescenza, la locomotiva, la turbina a vapore, il joystick per condurre gli aeroplani – e, non ultima, della sua leggendaria nightlife, Newcastle è di recente emersa anche come importante hub per l’innovazione tecnologica, le industrie creative e l’eccellenza accademica.
La città fondata dai romani nel 122AD fa lungo il Vallo di Adriano con il nome di “Pons Aelius” ha infatti cominciato ad attrarre molti investitori – soprattutto arabi, ma non solo – specialmente nei settori dell’energia, della tecnologia del clima, dell’aerospazio e della difesa, del digitale, del cinema. C’è chi lo considera un “nuovo Rinascimento” per la città e per tutto il Tyneside poiché porterà alla creazione di nuovi posti di lavoro, alla realizzazione di nuove infrastrutture, al recupero di zone e di edifici dismessi, al potenziamento dell’economia della conoscenza rappresentato dalle università e a un generale miglioramento del tenore di vita delle comunità di tutto il Nordest. Sarà pure un piatto ricco per la voracità saudita, ma, a ben guardare, Newcastle è – e rimarrà – quella città popolare ben descritta dal campionissimo Shearer, dove la «gente è molto orgogliosa di venire da qui», dove le persone «vogliono divertirsi e vivere la vita al massimo. Lavorano tutta la settimana e con il loro salario trascorrono il week-end divertendosi e guardando il calcio. Perché il calcio», al di là delle tante, troppe ombre, «è la nostra vita».
Monica Zornetta (Domani, 10 marzo 2024)
Il link: http://urly.it/3-n8d
Il Pdf: PAGINA-MZ-Domani_-_10_Marzo_2024.pdf