L’arte che aiuta a crescere l’impresa: così il pensiero creativo entra in azienda
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La persona è un generatore di valore per le imprese? E le imprese, lo sono per le persone? Come si determina tale qualità? Sono alcune delle domande cui il Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha di recente provato a rispondere con l’aiuto di studiosi di organizzazione del lavoro e di professionisti di companies internazionali. L’occasione è stata un convegno sulle nuove sfide per il Management, alla luce dell’evoluzione del sistema economico e produttivo in atto, che ha avuto, tra i partecipanti, Giovanni Costa, professore emerito dell’Università di Padova e tra i fondatori del Dipartimento veneziano; Germano Buttazzo, responsabile vendite di Linkedln; Cristina Cocchetto, responsabile Sviluppo manageriale di Ovs e Tommaso Galante, Human Resources Director Europe di De’ Longhi.

Lo vediamo tutti: il lavoro sta vivendo un’evoluzione velocissima; con estrema rapidità stanno cambiando le strategie organizzative e il ruolo delle persone nelle aziende private e pubbliche. E questo sta accadendo anche nelle professioni indipendenti, come quella artistica o dell’informazione. La sempre più pervasiva trasformazione digitale sta portando non solo alla nascita di nuove professioni, caratterizzate da competenze impensabili fino a una generazione fa poiché intrecciate con le nuove tecnologie (Big Data, IA), ma anche alla mutazione delle competenze richieste alle persone già inserite in un ambiente lavorativo di fatto modificato.

Scienza tecnologica, innovazione e competitività sono i tre pilastri su cui si fondano queste sfide, in mezzo ai quali, secondo i relatori, trova spazio la persona con la propria esigenza di affermazione e la propria dotazione di skills che l’azienda ha il compito di valorizzare, poiché rappresentano il suo stesso valore all’interno di un mercato globale (e perché la persona dovrebbe stare al centro dei valori aziendali). Ma non è tutto oro quello che luccica.

San Giobbe, Venezia

I cambiamenti organizzativi e tecnologici hanno, infatti, un impatto negativo, oltreché profondo, sui rapporti di lavoro. Rispetto al passato anche recente, al lavoratore è oggi richiesta una maggiore responsabilità, una intensa partecipazione alla creazione di nuove idee, una più rilevante self awareness delle qualità con cui rispondere adeguatamente alle domande; e ciò, a fronte di una maggiore brevità delle relazioni lavorative e di una più acuta e diffusa precarizzazione (legate a fenomeni di outsourcing) le cui conseguenze vanno dal ritorno del lavoro “a cottimo” ad un impiego limitato alle attività non ancora automatizzate, fino a un amplificato controllo da parte delle aziende sull’esecuzione del lavoro e sulla sua velocità.

Se nel 2022 la quantità di ore di lavoro svolta dall’ intelligenza artificiale passerà dal 29% del 2018 al 42% (dati World Economic Forum), quali attività rimarranno alle persone? «Resterà il lavoro non sostituibile, quello, cioè, caratterizzato da alta intelligenza emotiva e sociale», ha spiegato Anna Comacchio, docente del Dipartimento, presidente del Comitato scientifico del Ca’ Foscari Competence Center e moderatrice di una delle tavole rotonde. «Per poter coinvolgere le persone in questi futuri jobs, le aziende hanno cominciato a customizzare l’organizzazione del lavoro, tenendo conto della diversità delle nuove generazioni, in particolare la Generazione Z, del loro bisogno di flessibilità, della loro iper-digitalizzazione e della loro diversa concezione del rapporto tra lavoro e vita. Con l’auspicata presenza delle donne nel mondo produttivo, le imprese si trovano anche a ripensare gli orari di lavoro e il tipo di Welfare da erogare, che deve essere sempre più vicino alle esigenze di ciascuno». A detta degli esperti, lo stesso sistema tailored cut è in atto anche per chi già lavora nelle aziende. «Ora ci sono approcci alla formazione e ai processi di human resources meno standard rispetto al passato e più tagliate sulle qualità e le passioni della persona». Un tempo, insomma, contava l’esperienza professionale acquisita mentre oggi, per entrare (temporaneamente) in un’impresa, è preferibile possedere un mix di specifici talenti che comprendono, inoltre, la capacità di creare e di potenziare il proprio personal branding.

Una scena del film “The Trial” di O. Welles (1962)

«A questo punto, però, sorge un’altra domanda: quale miglioramento alla vita del lavoratore porta il riconoscimento del suo valore da parte dell’azienda?», ha aggiunto Fabrizio Panozzo, anch’egli docente del Dipartimento di Management veneziano, esperto di innovazione sociale e di Art Thinking, moderatore di un’altra tavola rotonda. «Questi strumenti di misurazione valoriale sono la prova dell’inefficienza delle modalità convenzionali nel valutare il senso della produzione economica, specialmente nei lunghi periodi di crisi che ciclicamente vive il Capitalismo. Credo che ad un vantaggio per le imprese non corrisponda anche un vantaggio per il lavoratore, costantemente valutato e in regime di continua competizione, e che strumenti di questo tipo riescano a creare solo tante solitudini e nessun tipo di legame comunitario».