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27/08/2023Seduto su una sedia in legno nella cucina di casa, in una notte così fredda che il fuoco del camino faticava a riscaldarla, il quacchero Levi Coffin, discendente di una potente dinastia di armatori balenieri di Nantucket, nel Massachusetts, ascoltava il racconto della giovane donna che gli stava di fronte. Si chiamava Eliza Harris, aveva con sé il figlio, arrivava dal Kentucky ed era molto, molto coraggiosa.
Aveva affrontato un viaggio rischioso per arrivare fino a lì, in quella casa di Newport, nell’Indiana, e sapeva bene che i pericoli non erano finiti perché il nord, l’agognato nord della libertà, era ancora lontano. Lassù, infatti, nelle colonie britanniche del Canada, la schiavitù era fuorilegge.
Eliza era una schiava ed era di proprietà di un uomo di Dover, nel Kentucky, la cui fattoria quasi lambiva il fiume Ohio, quella frontiera naturale che divideva il Southland, dove lo schiavismo era talmente radicato da costituire l’ossatura della sua economia, dagli Stati del nord in cui era, invece, illegale.
Aveva deciso di fuggire pochi giorni prima, una volta saputo che il padrone, a corto di soldi, l’avrebbe presto venduta, separandola così dal figlio. Eliza era sposata ma il marito non era con loro: in quell’inverno del 1838 anch’egli era scappato dalla piantagione e le aveva promesso che l’avrebbe ritrovata una volta giunto in Canada.
Era una notte di febbraio dalla luna flebilissima quando attraversò il fiume in disgelo per raggiungere l’Ohio, uno stato libero, o almeno così era sulla carta poiché, sebbene la compravendita di uomini e di donne non fosse permessa, la schiavitù non era ancora stata bandita. Lo percorse furiosamente, con il bambino tra le braccia, saltellando sui piccoli banchi di ghiaccio sparpagliati sulla superficie dell’acqua che il sole del giorno aveva quasi del tutto sciolto.
All’anziano abolizionista spiegava che in quel tempo, che sembrava infinito, non aveva avuto paura né si era soffermata granché sui pericoli che stava correndo: aveva però capito che avrebbe preferito annegare piuttosto di essere catturata, riportata dal padrone e separata dal suo piccolo.
Quando arrivò nella sponda opposta, nel villaggio rurale di Ripley, era stremata. Uno sconosciuto, intento a perlustrare la zona, le disse che poco più in là avrebbe trovato una lunga e vecchia scala di legno che dalla riva erbosa del fiume si inerpicava sul fianco di una collina per terminare in una casa. Quella casa, su due piani, era in effetti visibile da lontano grazie a una lanterna collocata in cima a un palo e ad un’altra, più piccola, che brillava ad una finestra.
Salita la scala, Eliza e il bambino entrarono dalla porta sul retro, lasciata socchiusa per consentire l’ingresso notturno a chi, come loro, cercava un rifugio; nella stanza tiepida era accesa una stufa. I proprietari, marito e moglie, comparvero quasi subito: sulla mezza età, erano molto devoti e molto attivi in un network più o meno clandestino conosciuto con il nome di Underground Railroad, la Ferrovia Sotterranea.
Questa Ferrovia, che dal 1830 al 1863 salvò un numero imprecisato di persone – dalle 30 mila alle 100 mila -, non era composta da misteriosi treni che viaggiavano sottoterra ma da un sistema di percorsi e di luoghi sicuri costituiti da case, fienili, chiese, capanni, scantinati, magazzini che gli abolizionisti del nord e del sud avevano organizzato per aiutare gli oppressi a conquistare diritti e libertà. Contava sul supporto di diversi finanziatori e di giornali come il Liberator di Boston o l’Emancipator di New York e si avvaleva della partecipazione di cittadini e cittadine, bianchi e afroamericani e dell’insostituibile aiuto di valorosi ex schiavi disposti a rischiare di nuovo la vita per salvare quella di altri esseri umani. La storia ci consegna, tra i tanti, i nomi di Harriet Tubman, Sojourner Truth, Frederick Douglass, John Parker, William Still.
A essa ci si riferiva con termini e codici mutuati dalle prime ferrovie costruite in America: le tratte identificavano le rotte verso il nord; le stazioni o depositi, gli alloggi sicuri; i conducenti/conduttori, e i macchinisti erano le guide lungo le rotte; chi nascondeva le persone nella propria casa era chiamato capo stazione e chi sovvenzionava il sistema, azionista; coloro che cercavano la libertà erano i passeggeri o i bagagli; i bigliettai erano gli organizzatori dei viaggi mentre i capolinea le mete finali: soprattutto il Canada e gli stati più settentrionali del Paese ma anche, in misura minore, il Messico.
Era, inoltre, un sistema che violava la legge: i Fugitive Slave Acts approvati dal Congresso nel 1793 e 1850 stabilivano, tra le altre cose, che chi aiutava le persone in schiavitù a scappare o interferiva con la loro cattura e restituzione ai masters, ai padroni, commetteva un crimine federale e per questo rischiava mesi di prigione e una multa di diverse centinaia di dollari. Ciononostante, erano parecchi gli Stati che si opponevano a tali misure: per esempio, impedendo agli sceriffi delle contee di assistere i cacciatori di schiavi assoldati dai proprietari per ritrovare la “merce” e varando delle proprie “leggi della libertà”. Inoltre, come ha ricordato lo storico Eric Foner nel suo libro del 2015, “Gateway to Freedom”, c’erano politici che pur avendo giurato sulla Costituzione, inclusa la clausola che imponeva il ritorno dei fuggitivi, avevano appoggiato la Ferrovia Sotterranea: uno di questi, William Seward, aveva svolto il proprio mandato al Senato offrendo allo stesso tempo ai perseguitati un rifugio nel proprio seminterrato.
Ma torniamo al villaggio di Ripley dove la coppia, notate le condizioni di Eliza, si mise subito a preparare qualcosa da mangiare, le fornì un vestito pulito, la lasciò riposare e poi, temendo l’arrivo di qualche cacciatore di schiavi per riportarla nel Kentucky, chiesero a due dei numerosi figli di guidarla fino al villaggio di Red Oak, dove era stata allestita una delle stazioni.
Il suo viaggio proseguì dunque verso l’Indiana e si fermò nella piccola Newport. Lì, in quell’umile cucina, scoprì che Levi Coffin era il “presidente” della Ferrovia Sotterranea e che il compassionevole proprietario della casa sulla collina (oggi museo nazionale), si chiamava John Rankin, era un reverendo presbiteriano nato nel Tennessee e uno dei conducenti e dei capi stazione più attivi insieme con la moglie Jean e i tredici figli. Per questa attività era stato molte volte minacciato di morte. Quando uno dei suoi fratelli, mercante in Virginia, acquistò degli schiavi, il religioso scrisse una serie di lettere che più tardi ispireranno la nascita della Società antischiavista americana; inoltre, sarà lui a raccontare la storia di Eliza alla scrittrice e attivista del New England Harriet Beecher Stowe, che nel 1852 ne ricaverà uno dei personaggi principali del suo “La capanna dello zio Tom”. Importante soprattutto per aver diffuso tra i lettori bianchi la conoscenza del dramma che da secoli corrodeva la loro “terra delle libertà”, il romanzo non dimenticherà di citare anche le figure di Levi e Catherine Coffin, ai quali l’autrice attribuirà però i nomi di Simeon e Rachel Halliday.
Il “presidente” lo ricorderà nel suo corposo memoir, “Reminescences”, completato nel 1876 alla soglia degli ottant’anni. Insieme al resoconto del viaggio di Eliza e delle vicende di alcuni tra gli oltre duemila schiavi aiutati dalla famiglia fino allo scoppio della Guerra civile, il libro contiene anche il drammatico racconto del giorno in cui, a sette anni, incontrò nella natia North Carolina un gruppo di uomini in catene e di quando, a quindici, ne aiutò uno per la prima volta.
Proprio nel periodo in cui Eliza si trovava in quella che oggi è diventata la cittadina di Fountain City, i Coffin avevano cominciato a costruire un’altra casa – su tale dato i documenti sono tuttavia discordanti – , allo scopo di accogliere quanti più fuggitivi possibile. Anche questa abitazione è oggi un museo nazionale.
In mattoni rossi, affacciata sulla strada principale, ha una cucina seminterrata in pietra, un pozzo interno che consentiva di avere l’acqua fresca sempre a disposizione (evitando di insospettire i vicini attingendola troppo di frequente al vicino ruscello) e ha, tra le sue otto stanze, quella del “circolo del cucito”, dove Catherine e altre donne confezionavano gli abiti per gli ospiti segreti. Nel sottotetto, i Coffin avevano ricavato altre piccole stanze che fungevano da rifugi e adibito alcune parti del fienile a nascondigli. Questa nuova casa diventerà nota nell’“ambiente” come la Grande Stazione Centrale.
Oltre ai musei e a una vasta letteratura anche accademica e scientifica, a svelarci i dettagli di questo sistema di cooperazione interraziale è stata di recente un’imperdibile serie tv prodotta da una delle maggiori piattaforme digitali: “The Underground Railroad”, tratta dal romanzo di Colson Whitehead, l’unico scrittore vivente ad aver vinto per due volte il premio Pulitzer per la narrativa (il secondo, grazie a questo libro). Edito nel 2016 da Doubleday, è la storia della straziante fuga verso il Canada della giovane schiava georgiana Cora, del suo inseguimento da parte di un cacciatore di taglie e del magico aiuto offerto alla fuggitiva da una vera e propria linea ferroviaria attiva nel sottosuolo.
Ma che cosa ha lasciato in eredità la Ferrovia Sotterranea agli Stati Uniti e al mondo contemporaneo?
A provare a spiegarlo è Carol Lasser, professoressa emerita di Storia al college di Oberlin, Ohio, a quel tempo tra i più importanti snodi delle rotte verso l’ex colonia britannica grazie alla sua posizione geografica e allo spirito progressista ed egalitario con cui, nel 1833, è stata fondata. «Molti oggi, in America, vogliono ricordare che i loro antenati hanno aiutato i cercatori di libertà nei loro viaggi verso il nord. Tuttavia, non possiamo dimenticare che ci è voluta una sanguinosa guerra civile per mettere fine alla schiavitù e che gli americani stanno lottando contro un suprematismo bianco ostinato, che è riuscito a sopravvissuto a tutto.
«Dobbiamo essere orgogliosi della resistenza degli afroamericani, di quanti hanno avuto il coraggio di fuggire con l’Underground Railroad e di coloro che – neri, bianchi, donne – li hanno aiutati», continua la studiosa, «ma dobbiamo riconoscere che [questo lavoro] non è stato completato con il giusto rispetto nei confronti delle persone di colore e che negli Stati Uniti abbiamo ancora molto lavoro da fare per l’eguaglianza razziale. Oggi riconosciamo l’ingiustizia e l’oppressione della schiavitù; in futuro le persone riconosceranno l’oppressione della fame, delle persecuzioni politiche e della guerra. La Bibbia ci ricorda che tutti eravamo stranieri: per questo abbiamo bisogno di creare luoghi sicuri, di rimuovere le barriere e di accogliere perché sono ancora oggi in troppi, ovunque nel mondo, a vivere una vita senza libertà».
Parole, quelle di Lasser, che ci riportano all’attualità e all’immoralità dei muri eretti da molti Paesi per bloccare l’immigrazione illegale. In un simile scenario, il Canada si è fino ad oggi distinto per la sua “fede” incrollabile nei valori dell’accoglienza, meritandosi per questo l’appellativo di “ultimo baluardo” della libertà: tuttavia, anche lì qualcosa è cambiato e oggi chi tenta di entrare clandestinamente nel Paese viene respinto alle frontiere.
La Roxham Road è una stretta strada rurale che attraversa campi di mais, boschi, fattorie. Lunga poco meno di nove chilometri, ha una particolarità: collega la città di Champlain, nello Stato di New York, con Saint-Bernard-de-Lacolle, nel Quebec (Canada). Per questa ragione è diventata la più nota “porta d’accesso” illegale fra i due Stati, utilizzata da moltissimi immigrati in fuga da guerre e crisi interne come “passaggio per la libertà”; solo nel 2022 è stata percorsa da 40 mila persone tra uomini, donne e bambini provenienti dal Medio Oriente, dalla Nigeria e dallo Zimbabwe, dall’Asia meridionale, dall’America latina e centrale.
Questo attraversamento sterrato che si interseca con una strada dal significato importante per l’Underground Railroad, la North Star (“Quando trovi la tua Stella del Nord, sai dove sei diretto”, raccomandavano i conduttori ai fuggitivi), è stato però chiuso qualche mese fa per effetto di un trattato bilaterale siglato da Joe Biden e Justin Trudeau allo scopo di impedire ai richiedenti asilo di valicare illegittimamente le frontiere dei due Paesi. E’ un accordo contestato, che amplifica il controllo a tutti i valichi d’accesso, ufficiali e non, lungo il confine tra gli Stati Uniti e il Canada e che rafforza la possibilità di respingimento dei migranti prevista dal Safe Third Country Agreement, l’Accordo sul Paese Terzo Sicuro, entrato in vigore nel 2004 tra le critiche delle organizzazioni per i diritti umani. Nonostante il governo di Ottawa si sia comunque impegnato ad istituire un programma per accogliere 15 mila richiedenti asilo dal centro e dal Sud America, le polemiche intorno a questa “Underground Railroad contemporanea” continuano ad infuriare. “L’applicazione dell’accordo non fermerà gli attraversamenti irregolari ma li renderà ancora più clandestini e pericolosi”, hanno messo in guardia le oltre duecento organizzazioni che compongono il Consiglio canadese per i rifugiati: “Aspettiamoci di vedere sempre più persone ferite, o addirittura morte, nel tentativo di superare il confine e sempre più contrabbandieri senza scrupoli approfittare dell’occasione per fare soldi sulla pelle dei disperati”.
Monica Zornetta (La Lettura – Corriere della Sera, 21 maggio 2023)