Se un giorno tornasse Nick Drake: l’eredità della sua voce tra noi
22/11/2024L’inferno artificiale di Lovecraft: come inventò il suo set gotico
04/12/2024Una montagna immensa, antica, che tutto vede e tutto sa, che incorpora amore, sofferenza e crudeltà. Una montagna muta ma piena di gole e di boschi, dove regna un silenzio squarciato solo dalle litanie ancestrali delle donne, dalle voci assordanti dei torrenti e dal rumore mortifero della ‘ndrangheta. Una montagna insanguinata ma che per la piccola Anna è più di un’amica; è un luogo magico e senza tempo che le regala frutti preziosi come le more e la solitudine.
La montagna è l’Aspromonte, il massiccio che delimita il confine più meridionale della Calabria nelle cui viscere centinaia di persone, tra gli anni Settanta e Novanta, sono state tenute prigioniere dalla ‘ndrangheta; la “bambina” è Anna Sergi, cosentina, docente di Criminologia all’Università di Essex, nel Regno Unito e studiosa tra le più importanti al mondo di ‘ndrangheta e crimine organizzato transnazionale.
È lei che in un libro di 176 pagine da poco uscito per Blonk con il titolo L’inferno ammobiliato, riavvolge il nastro dei ricordi d’infanzia, maturati soprattutto tra l’Aspromonte, Capo Vaticano e Cosenza, per tentare di spiegare, in primis a sé stessa, la complessa anima della propria terra e quella della ‘ndrangheta che lì è nata e cresciuta.
Partendo dalle spensierate estati trascorse nel paesino dei nonni «mezzo addormentato» sulla Montagna, dai pellegrinaggi alla Madonna di Polsi insieme con l’amata nonna Mimma e le altre anziane della ruga recitando novene e cantando canzoni che la riempivano di stupore e dalle strane parole come “mafia”, “‘ndrangheta”, “faida” carpite dai discorsi dei grandi, Sergi descrive e analizza ciò che in quegli stessi anni si svolgeva intorno a lei per mano della ‘ndrangheta: nella sua Montagna, con i sequestri di persona; nella sua Calabria, con la costruzione del porto di Gioia Tauro e dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e con l’avvelenamento sistematico delle terre e dei mari.
Mentre Anna cresceva, la ‘ndrangheta si espandeva: smetteva di essere un «ronzio di fondo […], una di quelle cose che esistono e stanno là, fanno parte dell’arredamento», per diventare un rumore fortissimo. Esasperato.
«Non passa giorno che non ci sia sui giornali, sui social, online, in Tv, una notizia legata alla ’ndrangheta, a torto o a ragione ovviamente. Che si tratti di appalti, politica, traffico di stupefacenti, violenza, la ’ndrangheta oggi – spesso al singolare, spesso astrattamente – è chiaramente identificabile come nemico dei calabresi, degli italiani, e del mondo intero», scrive in questo libro nato dalla volontà di mettere «un po’ d’ordine in un guardaroba stracolmo di ricordi di infanzia» nel tentativo di capire come si è formata la sua percezione del “fenomeno ‘ndrangheta”, come nascono i pregiudizi sui calabresi e anche la mitologia che circonda questa organizzazione.
Esiste infatti, secondo la studiosa, una serie di discrasie tra il modo in cui il fenomeno viene descritto fuori dalla Calabria e come viene invece percepito dentro. «Se la ‘ndrangheta rende la Calabria un inferno, come fanno i calabresi a viverci?», è l’interrogativo che si pone. Perché, anziché riconoscerlo come tale e combatterlo, continuano ad ammobiliarlo?
È con la rimozione, con lo scivolamento del ricordo e con il silenzio che molte comunità di questa “Italia estrema” hanno potuto e ancora possono continuare a vivere nell’“inferno”. Pensiamo a quel che è accaduto con i sequestri di persona: «Nonostante la mole di conoscenza disponibile, c’è qualcosa, nella crudeltà di quegli anni, che viene cancellato nelle menti di molti calabresi […] perché qualsiasi tipo di verità è intrinsecamente divisiva per le comunità locali. Laddove è innegabile che molti calabresi, soprattutto reggini, conoscano e ricordino il periodo dei sequestri, non c’è stato probabilmente un riconoscimento adeguato delle violenze inflitte», osserva. «Quella violenza […] è rimasta e rimane ancora sullo sfondo, come se non si riferisse proprio a quei paesi, a quella gente, alla terra, agli alberi e ai cieli dell’Aspromonte. Come se riguardasse un altrove. La violenza che non viene apertamente riconosciuta e affrontata tende a rimanere intrappolata all’interno […] fino a quando non diventa normalità. Forse […] una normalità edulcorata, ma pur sempre normalità. Un inferno ammobiliato, appunto».
Figlia dello scrittore e giornalista di Repubblica Pantaleone (“Lullo”) Sergi, autore nel 1991 di uno dei primi libri sulla ‘ndrangheta pubblicati nel nostro Paese, La Santa violenta: storie di ‘ndrangheta e di ferocia, di faide, di sequestri, di vittime innocenti ed ex sindaco di Limbadi, nel Vibonese, roccaforte del clan Mancuso, Anna rammenta che un tempo la ‘ndrangheta era «lontana e impercettibile, probabilmente perché era così vicina e ovunque intorno a me, intorno a noi, soprattutto durante i sequestri» e che, paradossalmente, ha potuto vederla davvero solo una volta allontanatasi da lì.
E’ in Australia, dove ha vissuto e lavorato, che ha cominciato a capire il suo Aspromonte, ed è stato solo inseguendo fuori dalla Calabria le intricate rotte dei cognomi aspromontani che ha scoperto come Sergi (non il “ramo” paterno bensì quello di Platì, legato alla famiglia della madre e divenuto parte anche del gruppo reggente a Buccinasco, in Lombardia) fosse profondamente associato con i mammasantissima locali, i capi storici Sergi-Barbaro, e quanto nell’immaginario pop aussie questo cognome sia divenuto un sinonimo di mafia italiana grazie a una serie tv.
L’inferno ammobiliato si differenzia nettamente dagli altri testi sulle mafie: il suo approccio intimistico, empatico, in prima persona – «inusuale per chi abitualmente scrive saggi accademici», ha evidenziato nella prefazione Enzo Ciconte, il massimo esperto in Italia di criminalità organizzata – impreziosiscono un lavoro di ricerca dal criminologico, sociologico e storico puntuale e rigoroso.
Impressiona più di tanti numeri il ricordo di uno strano tardo pomeriggio di primavera del 1991 raccontato nel libro.
Aveva sei anni, era in viaggio con il suo papà e un po’ sonnecchiava e un po’ giocava con la Barbie sul sedile posteriore dell’auto. Ad un certo punto, arrivati in una piazza di un paese tra le luci di altre macchine, Lullo si era fermato, si era raccomandato con lei che non scendesse ed era uscito in fretta: dal finestrino Anna aveva potuto vedere tante luci, tante persone agitate, i carabinieri. Aveva intuito che qualche cosa era successa lì fuori. Quando il papà era rientrato, le aveva chiesto la Barbie: «La diamo a quella bimba» che piange perché «ha appena perso suo padre».
Anna non voleva dargliela, quella bambola era sua, ma Lullo le aveva detto: «Tu hai un sacco di bambole. Questa la diamo alla bambina, magari la fa sorridere un po’» ed era uscito con la Barbie in mano. Una volta tornato in auto, lo aveva sentito dire al telefono: «’ndrangheta… Sì, la faida… No… È morto, c’è la sua testa qui, stavano giocando a calcio con la testa in piazza, mi dicono».
Anna Sergi allora non lo sapeva ma quel giorno di maggio, un venerdì, una mattanza si era consumata nella piana di Gioia Tauro: la “mattanza di Taurianova”, con quattro persone ammazzate per vendetta nel giro di poche ore. Una di loro era stata ritrovata con il corpo mutilato: era Giuseppe Grimaldi, la cui testa, tagliata, era diventata per i suoi assassini un macabro pallone da prendere a calci.
Monica Zornetta (Domani, 25 novembre 2024)