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Il Draize test è forse uno dei più noti al di fuori del mondo scientifico: usato fin dai primi anni Quaranta, prevede l’applicazione di una sostanza sugli occhi e sulla pelle di conigli albini, immobilizzati e coscienti, per misurare il rischio di irritazione osservando i danni provocati dalle sostanze stesse. L’LD50, dove LD sta per lethal dose e il fattore numerico indica la dose della sostanza che, somministrata in una volta sola per via orale o cutanea, è in grado di uccidere la metà degli animali coinvolti nell’esperimento, è invece un parametro con cui si valuta il grado di tossicità delle sostanze chimiche (pesticidi, additivi alimentari, farmaci etc.). Tornato d’attualità con la campagna di sensibilizzazione del brand di cosmetici Lush, con l’LD50 il ricercatore classifica il grado di pericolosità di una sostanza in base al tipo di risposta: più è tossica, minore è la quantità necessaria per uccidere. È un metodo di “osservazione” ideato nel 1927 e la sua crudeltà è sconvolgente: la morte degli animali, di solito cani e primati, arriva dopo una lunga agonia. Non viene loro risparmiata alcuna sofferenza né viene concessa una morte rapida o un’anestesia perché tutto potrebbe andare ad influenzare i risultati dell’indagine.

Ma gli esperimenti sugli animali non si fermano, ovviamente, alla tossicologia. Pensiamo agli antibiotici, all’insulina, agli antidepressivi, agli antitumorali, ai vaccini, ai trattamenti per l’HIV e il Parkinson, ai trapianti, alle chemioterapie, alle risonanze magnetiche. Dall’inizio del secolo scorso, quando il termine che definiva tali dolorose pratiche era vivisezione, ciascuna delle voci comprese in questo elenco, in realtà molto più lungo, è stata testata su una moltitudine di animali prima di essere messa in commercio. Non solo cavie, topi, ratti, criceti, conigli, cani e primati, ma anche gatti, cavalli, asini, maiali, pecore, rettili, pesci, uccelli, furetti, pulcini. Persino armadilli.
Il primo trapianto di reni e l’impianto del primo pacemaker cardiaco, ad esempio, sono stati effettuati sui cani mentre i pionieristici esperimenti di stimolazione cerebrale profonda, un trattamento chirurgico invasivo – prevede la perforazione del cranio in anestesia locale – usato per ridurre i disturbi motori del Parkinson, sono stati svolti sulle scimmie. Senza il sacrificio dei conigli sarebbe stato forse impossibile effettuare trapianti di cornea già al principio del Novecento e senza i gatti e le loro convulsioni indotte con scariche elettriche non sarebbe probabilmente stata identificata la fenitoina, usata per curare l’epilessia.
E ai giorni nostri? Gli animali sono ancora tra i modelli più usati a scopo scientifico? La risposta arriva da alcuni dati dell’ultimo report della Commissione Europea.

Nel 2020 sono stati quasi 8 milioni quelli impiegati per la prima volta in 27 Stati membri – Italia inclusa e Gran Bretagna esclusa – e in Norvegia: 451.991 dei quali nel nostro Paese. Questo dato parla di un 7,5% in meno rispetto al 2019 (per pandemia) e registra anche un altro aspetto: un incremento dell’utilizzo di determinati animali come i criceti, i conigli, i gatti e vari animali da fattoria. È aumentata, nel 2020, anche la quantità di sofferenze “moderate” patite dagli animali (37% contro il 34% nel 2019) mente le sofferenze “severe” hanno registrato un calo, sia pure minimo. I numeri, tuttavia, non sono completi: la Human Society International parla di centinaia di milioni di animali usati ogni anno in tutto il mondo ma, poiché solo una piccola parte dei Paesi raccoglie e pubblica i dati, è praticamente impossibile conoscere l’entità precisa. Va detto che i successi (e gli insuccessi) raggiunti dalla ricerca nell’arco di due secoli, a scapito del benessere degli animali, si sono accompagnati a imprescindibili domande etiche e scientifiche. Esiste un punto di equilibro tra la tutela della salute umana e il rispetto per la vita degli animali? Gli animali godono di diritti? Gli esseri umani hanno il diritto di sfruttarli per i propri scopi, sia pure scientifici? Ma anche: i risultati ottenuti con il modello animale sono immediatamente trasferibili sull’uomo?

A quest’ultima domanda risponde Michela Kuan, biologa e responsabile del settore vivisezione della Lav. «La percentuale dei test che, una volta superata la fase di sperimentazione sugli animali, non supera però le prove cliniche per gli esseri umani, è superiore al 95%: lo sottolinea anche la FDA in uno studio. È quindi nell’interesse della conoscenza e dei malati cercare metodi più attendibili. Usare gli animali in una procedura scientifica dovrebbe essere, secondo quanto prevedono le norme, l’ultima possibilità da considerare, ma chi concepisce l’esperimento e lo esegue non ha, quasi mai, le necessarie competenze in materia di metodi alternativi». Tra le tante norme, la più recente è la direttiva 2010/63/UE, recepita dall’Italia con il D.lgs. 26 del 2014, che restringe in alcuni ambiti la sperimentazione, incentiva il ricorso a metodi alternativi e offre la possibilità di adottare animali sfruttati nei laboratori. «In Italia, sebbene dal 2017 sia stabilito per legge che non si possono usare animali per testare droghe, alcol e tabacco, il divieto non è ancora in vigore. Slittato al 2025, permette di continuare a sperimentare sulla loro pelle, obbligandoli a fumare l’equivalente di 266 sigarette al giorno o a inalare i vapori dell’alcol prima di essere uccisi e sezionati. Purtroppo, gli interessi economici di una lobby vivisettoria che impera da decenni nel
nostro Paese non vogliono la fine di questa ricerca malata», riflette Kuan.

Assolutamente sicuro della necessità del modello animale è, al contrario, Giuliano Grignaschi, responsabile del Benessere Animale negli stabulari dell’Università Statale di Milano e portavoce della piattaforma Research4Life. «Lo è se vogliamo poter arrivare all’uomo in sicurezza. Gli ambiti in cui oggi si usano sono tanti: non solo nello sviluppo del farmaco ma anche nella ricerca di base, che ci permette di scoprire i meccanismi che stanno alla base della vita; nella ricerca traslazionale, che studia quelli all’origine della malattia; nel controllo della qualità degli alimenti; nell’addestramento dei chirurghi, soprattutto cardiovascolari; nello studio degli effetti dell’alcol, del fumo di sigaretta, delle sostanze stupefacenti; nelle ricerche per la conservazione della specie». Anche Gilberto Corbellini, professore di storia della medicina e di bioetica alla Sapienza, ritiene che in Italia non si possa ancora fare a meno di loro: per questo, contesta aspramente il modo in cui la direttiva europea è stata fatta propria dal nostro Paese. «Credo che l’Italia l’abbia recepita in una forma peggiorativa; c’è un atteggiamento talebano che va a danno del dialogo e della stessa ricerca: ora all’estero sanno che gli studi che prevedono la sperimentazione animale da noi non si possono fare». E continua: «Gli animali non hanno diritti. Noi, che sappiamo che cosa sono i diritti, non abbiamo il diritto di fare loro del male, e sempre noi, quando lo dobbiamo fare, abbiamo il dovere di ridurre il più possibile la loro sofferenza».

Un importante passo in avanti a garanzia del loro benessere è stato fatto in Italia nel 2013 con l’entrata in vigore del regolamento Ue 1223/2009 che, riprendendo il contenuto di precedenti provvedimenti, ha vietato la sperimentazione di cosmetici finiti sugli animali e la vendita e l’importazione di prodotti e ingredienti cosmetici con questa origine. Le nuove norme prevedono l’utilizzo in vitro di modelli ricostituiti di cute e cornea di origine umana, analisi chimiche o in silico. I consumatori europei possono riconoscere i prodotti che rispettano gli standard internazionali dal logo con il coniglietto che salta.
Tra le prime ad aver eliminato i test e finanziato un premio internazionale c’è l’azienda inglese Lush, fondata nel 1995 e con 930 negozi in tutto il mondo. Dal 2012 il Lush Prize assegna un fondo di 250 mila sterline alle eccellenze scientifiche che lavorano per trovare alternative efficaci, sicure ed etiche alla sperimentazione animale. Tanti i vincitori italiani: dieci in dieci edizioni, nove dei quali giovani ricercatori. Tra le premiate (nel 2013) con la maggiore esperienza c’è Anna Maria Bassi, ricercatrice presso il Dipartimento di medicina sperimentale all’Università di Genova e co-fondatrice, nel 2017, del Centro 3R, di cui oggi fanno parte sette atenei italiani. Le tre “erre” stanno per Replacement, Reduction, Refinement, un concetto introdotto nel 1959 che punta a sostituire gli animal testings con i metodi alternativi, a ridurre il numero di animali utilizzati e a perfezionare i procedimenti. È dimostrato che i risultati ottenuti sugli animali non sono tutti trasponibili sull’essere umano: il metabolismo del topo non è quello dell’uomo, l’occhio del coniglio è diverso dal nostro», spiega Bassi: «C’è bisogno di cambiare prospettiva di ricerca. L’obiettivo del Centro 3R è fornire informazioni e creare strutture adeguate alla diffusione di metodi non-animali: quindi l’uso di approcci sperimentali, in vitro, in chemico e in silico, potrà migliorare la predittività dei rischi per la salute umana e animale e per la tutela dell’ecosistema. Puntiamo sulla formazione, sulla multidisciplinarietà ed educhiamo i giovani ad avere una mente aperta alle innovazioni. Purtroppo, ci scontriamo ogni giorno con una parte di ricercatori che non vuole cambiare strada».
Monica Zornetta (L’Economia civile – Avvenire, 1 novembre 2023)

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Il pdf: SPERIMENTAZIONE EC 1 NOVEMBRE (1)

Il Link: https://www.avvenire.it/economiacivile/pagine/un-criceto-da-salvare-in-cerca-di-alternative-alle-cavie-da-laboratorio