Tunnel, cappotti e una cavallina. L’arte della fuga dalla prigionia

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Il tenente Airey Neave, ufficiale del Corpo degli Ingegneri Reali dell’Esercito Britannico, era un osso duro. Nato da una dinastia di baronetti a Knightsbridge, nel West End di Londra, laureato ad Oxford, buon conoscitore della lingua tedesca, nel maggio 1940, all’età di 24 anni, fu catturato a Calais, dove stava combattendo con la Royal Artillery contro la 10ª Divisione Panzer e portato a Torun, nella Polonia occupata. Qui, insieme a diverse altre migliaia di soldati di truppa e sottoufficiali britannici e francesi, fu internato in un grande campo di prigionia del Reich composto da una ventina di vecchi forti militari prussiani: lo Stalag XX-A.

Trascorse quasi un anno preparando la fuga, che mise in atto il 16 aprile 1941. Il profumo della libertà, però, svanì troppo presto: fu riacciuffato dopo pochi giorni dalla Gestapo, punito e trasferito a Colditz, nella bassa Sassonia, in un altro campo per prigionieri di guerra: l’Oflag IV-C.

Un Oflag era un campo predisposto dalla Wermacht, in base alle indicazioni della Convenzione di Ginevra del 1929, per la reclusione dei soli ufficiali Alleati. Per volere del Reichsmarshall, Herman Goring, l’Oflag IV-C venne allestito in un castello-fortezza del 12esimo secolo già utilizzato come carcere durante la prima guerra mondiale e che per la sua particolare collocazione (si innalzava su una ripida collina che dominava il fiume Mulde, tra Lipsia e Dresda, ed era circondato da filo spinato) era ritenuto di Alta Sicurezza, dunque inespugnabile. A Colditz finivano quegli ufficiali dell’Esercito britannico e delle Forze Alleate che, come Neave, erano scappati da altre strutture carcerarie naziste.

Nonostante questo, il 28 agosto 1941 ci riprovò. L’audace piano, approvato dal Comitato di Fuga, prevedeva che egli si allontanasse dal castello al termine dell’appello serale grazie ad ingegnoso travestimento e ad un lasciapassare rubato. Il tenente si presentò perciò all’appello con una finta uniforme da caporale tedesco (in realtà un’uniforme polacca modificata) nascosta sotto il cappotto da ufficiale britannico;  quando l’appello terminò, si liberò del cappotto, calzò un berretto tedesco posticcio e raggiunse il cancello, dove mostrò al soldato di guardia il lasciapassare per uscire. Il fuggiasco aveva già superato l’inferriata quando la sentinella si accorse che quel pass non era regolare e non appena gridò “Fermo o sparo!” le luci del campo lo puntarono. Lo stesso fecero i fucili di altri soldati. Arrestato, fu punito con percosse e qualche settimana di isolamento.

Cinque mesi dopo, la notte tra il 6 e il 7 gennaio 1942, riuscì finalmente a lasciare il castello insieme a un altro ufficiale inglese e a due olandesi, ciascuno vestito con una finta divisa tedesca: nel caso di Neave, l’uniforme fu ricavata da un cappotto dell’Esercito tedesco a cui furono incisi i numeri del Reggimento e dipinti i bottoni, il colletto e gli spallacci con la pittura che si usava per le scenografie nel teatro del campo. I quattro si calarono in un buco praticato nel pavimento del teatro, attraversarono stanzoni e corridoi fino a raggiungere il cancello, da cui riuscirono a sgattaiolare. Ma mentre Neave e uno degli olandesi furono in grado di tornare a casa, gli altri due vennero catturati a Ulm e riportati nel campo.

Neave, successivamente arruolato come ufficiale nell’M19, è oggi ricordato per essere stato il primo britannico a fuggire dalla fortezza di Colditz ma anche per le modalità della sua morte, avvenuta nel 1979 per mano dell’IRA mentre ricopriva la carica di Segretario di Stato ombra per l’Irlanda del Nord nel governo di Margareth Thatcher.

La sua è solo una delle tante memorabili fughe dai campi di prigionia creati in Germania e nei territori europei occupati, in Gran Bretagna e in Giappone nel corso del secondo conflitto mondiale raccontate in The Great Escapes (“Le grandi fughe”), la bella mostra in corso fino al 21 luglio presso gli Archivi Nazionali a Londra.

Servendosi di documenti rari, oggetti, mappe, lettere, fotografie provenienti dalle collezioni degli Archivi ed altro materiale, mai mostrato prima, fornito dall’Intelligence britannica, l’esposizione curata dagli storici Will Butler e Roger Kershaw e allestita da Field + Peter Dixon fa conoscere anche al pubblico meno esperto la realtà vissuta quotidianamente nei campi di prigionia da centinaia di migliaia di internati di guerra militari e civili (i POW)  tra fame, brutalità e duro lavoro; si addentra nelle pieghe delle loro storie più intime e dolorose; approfondisce i diversi contesti geografici, storici, politici, culturali e giuridici che ne hanno segnato i destini– dalle tutele contenute nelle Convenzioni di Ginevra del 1929 e del 1949 agli orrori della marcia della morte di Bataan da parte dell’Esercito imperiale giapponese nel 1942 -; svela, grazie ad apparati video ed infografici, i retroscena delle evasioni e il coraggio, l’intraprendenza e lo spirito di resilienza di coloro che le hanno messe in atto.

Una delle scoperte più sensazionali fatte dagli storici che hanno digitalizzato i dossier esposti a The Great Escapes riguarda l’accusa di tradimento nei confronti di due prigionieri britannici, la cui collaborazione con il nemico portò nel 1944 alla cattura di una settantina di fuggitivi dal campo di prigionia della Luftwaffe nella Polonia occupata, lo Stalag Luft III, e alla condanna a morte di cinquanta di questi.

Ad aver messo nero su bianco le accuse fu, a guerra finita, uno dei militari inglesi che nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1944 parteciparono alla grande evasione attraverso un tunnel scavato nello Stalag (un’impresa raccontata con parecchie licenze poetiche nel film del 1963 “La grande fuga”): il capitano Desmond Plunkett, valoroso e generoso pilota della Raf.

Arrestato nel giugno 1942 in Olanda dopo l’abbattimento del bombardiere che stava pilotando e internato nello Stalag Luft III, Plunkett fu infatti tra coloro che aiutarono a preparare l’evasione; posto dal Comitato di Fuga a capo di una squadra di quattordici cartografi, realizzò diverse migliaia di preziose mappe del campo.

Furono tre i tunnel di un centinaio di metri che gli internati scavarono per oltre un anno in gran segreto all’interno di tre capanni: “Harry”, “Tony” e “Dick” erano i nomi in codice. Si trattò di una sorta di “fatica di Sisifo” per coloro che vi lavorarono: lo Stalag, infatti, era stato voluto in quel luogo dalla forza aerea nazista per via del suo caratteristico terreno sabbioso che rendeva estremamente gravoso realizzare gallerie sotterranee dalle quali scappare.

Quella notte di marzo, settantasei aviatori britannici e del Commonwealth, vestiti soprattutto con finte divise tedesche e muniti di documenti contraffatti, riuscirono a calarsi dentro “Harry” (il cui ingresso era prudentemente nascosto da una stufa) prima che l’allarme interrompesse il piano e il settantasettesimo fosse avvistato e catturato dalla Gestapo. Plunkett fu il tredicesimo prigioniero ad entrare nel tunnel: lo percorse strisciando e, una volta fuori, salì su un treno per la Cecoslovacchia. Purtroppo, una volta arrivato al confine austriaco, fu arrestato, torturato e rinchiuso in un altro Stalag.

La stessa sorte toccò a Bertram “Jimmy”, James, il prigioniero-pilota che aiutò il gruppo nelle operazioni di scavo e di ricollocamento del terreno fingendosi un operaio cecoslovacco di una segheria locale di ritorno a casa: la notte dell’evasione si introdusse nel tunnel con il numero 39 ma, sebbene fuori dal campo, non riuscì a fare ritorno in Inghilterra. Dopo qualche giorno fu infatti fermato in una stazione ferroviaria tedesca. Dei settantasei protagonisti effettivi della fuga (il Comitato aveva pianificato di salvarne duecento) solo tre riuscirono a tornare a casa sani e salvi: gli altri furono catturati e una cinquantina giustiziata.

I documenti esposti agli Archivi Nazionali permettono anche di conoscere i particolari di un’altra eclatante evasione da un campo per prigionieri di guerra per mezzo di un tunnel: questa volta a lasciare il campo di internamento (il 198 o Island Farm, gestito dalle Forze Alleate nel Galles Meridionale) furono, la notte del 10 marzo 1945, settanta militari nazisti, ventitré dei quali poi ricatturati. Non meno curioso, e, anche in questo caso, oltremodo coraggioso, è stato il ruolo ricoperto dall’attore britannico e futura stella della serie “Carry On”, Peter Butterworth, nell’organizzazione di due evasioni dallo Stalag Luft III.

Negli anni Quaranta giovane tenente dell’aviazione navale nella Royal Navy, Butterworth fu arrestato dai nazisti nei Paesi Bassi e rinchiuso nello Stalag, dove non solo collaborò alla preparazione della fuga dei settantasei internati mettendo in scena, nel teatrino da campo che egli stesso aveva allestito, pièce teatrali così strepitanti da coprire il rumore prodotto dagli scavi, ma l’anno precedente, il 29 ottobre 1943, aiutò ad organizzare un’evasione con una cavallina di legno. L’incredibile piano prevedeva che una cavallina per la ginnastica con basamento cavo, costruita dai detenuti con il compensato delle casse della Croce Rossa, fosse portato ogni giorno nel cortile del campo e collocato proprio sopra ad un tunnel in realizzazione: mentre alcuni prigionieri eseguivano gli esercizi di ginnastica in modo da non insospettire le guardie, altri, dentro la base cava, scavavano il tunnel. Il giorno della fuga, tre prigionieri si nascosero nella cavallina che, come al solito, fu portata all’imbocco del passaggio sotterraneo e, da lì, si dileguarono verso la libertà.

Monica Zornetta (Domani, 28 giugno 2024)

il pdf: DOMANI Great Escape pdf

il link: https://www.editorialedomani.it/idee/tunnel-cappotti-e-una-cavallina-larte-della-fuga-dalla-prigionia-sy2ywcc7