Quei bianchi uccisi e sepolti dal Ku Klux Klan prima di #blacklivesmatter
27/11/2020Quando il tenente lo aveva convocato in ufficio e gli aveva detto: «Hai superato il colloquio, ti affido il caso Zodiac, mi fido di te», l’ispettore capo Pierucci, pur felice della bella notizia, sapeva che non sarebbe stata una passeggiata.
Era il 2014, l’ultimo omicidio attribuito all’imprendibile serial killer della California occidentale risaliva a quarantacinque anni prima, l’Unità Omicidi Cold Case del Dipartimento della Polizia di San Francisco era da tempo a corto di uomini, lui stesso aveva appena superato il colloquio con le più alte cariche del Dipartimento e ad attenderlo, negli archivi, c’erano ventisei scatoloni zeppi di documenti, di foto, di rapporti, di perizie, memorandum e verbali. E, con loro, la promessa di un discreto numero di notti da passare insonni.
Era da un po’ che molti dei suoi colleghi più anziani erano andati in pensione o erano stati promossi o, per qualche ragione, non avevano più potuto o voluto rimanere nell’Unità; nel giro di un solo anno il numero di ispettori della Omicidi era passato da ventisette a sedici: ciò significava che la strada da fare, per la nuova squadra investigativa, era tutta in salita. Ad ogni modo, erano anni che Gianrico Pierucci desiderava quell’incarico e, una volta congedatosi dal tenente, aveva voluto dare un’occhiata al contenuto degli scatoloni.
La gran parte delle carte si riferiva all’unico delitto firmato da Zodiac nella città di San Francisco, l’ultimo di una lista di cinque che i detectives di tutta la California erano riusciti ad attribuirgli. In questo caso la vittima era un giovane tassista, Paul Lee Stine, ucciso con un colpo di pistola alla testa da uno sconosciuto passeggero del yellow cab e derubato del portafogli e delle chiavi.
Il fatto era successo verso le dieci della sera dell’11 ottobre 1969 nell’agiato sobborgo di Presidio Heights, a una manciata di chilometri dalla downtown. Ventinove anni, sposato con una ragazza del Wisconsin, Stine studiava per ottenere il PhD in Lingua e Letteratura Inglese alla San Francisco State University e, ironia della sorte, quella notte non avrebbe dovuto essere in servizio.
Prima di scappare, abbandonandolo riverso sui sedili anteriori del taxi, l’omicida gli aveva strappato un brandello di camicia insanguinata che nei giorni seguenti aveva diviso minuziosamente in tre parti e allegato, come elemento di prova, a tre diverse lettere di rivendicazione. Le prime due, spedite tra l’ottobre e il novembre 1969 alla redazione del San Francisco Chronicle, la terza, il mese dopo, al celebre avvocato della Bay Area, Melvin Belli.
Mentre sfogliava i documenti, da uno degli scatoloni era spuntato l’identikit di Zodiac e l’investigatore, a quel punto, si era fermato ad osservarlo. Era stato realizzato pochi giorni dopo l’omicidio di Stine grazie alle descrizioni dei tre giovani testimoni che quella sera si trovavano nella zona di Presidio Heights; il fatto curioso è che quell’individuo era stato notato anche dai due agenti di pattuglia della San Francisco Police Department i quali, per un inspiegabile errore nella comunicazione via radio dalla centrale, stavano cercando il sospetto responsabile in un uomo di colore.
All’ispettore era chiaro che quei documenti avrebbe dovuto studiarli uno ad uno, e, una volta fatto questo, avrebbe dovuto ascoltare i racconti dei testimoni, ispezionare con i suoi collaboratori i luoghi del crimine, riesaminare le connessioni con gli altri omicidi, richiedere nuovi esami forensi e collaborare con gli inquirenti e gli analisti del suo e di altri dipartimenti di Polizia della California, dell’Fbi e di altre agenzie.
Pierucci a quel tempo aveva cinquantuno anni, una buona metà dei quali trascorsa in Polizia, e viveva in città con la moglie Cindy e i due figli. «Ero bambino quando ho capito che volevo diventare un poliziotto dell’Unità Omicidi», racconta oggi dalla casa di San Francisco dove abita con Cindy e dove si gode la meritata pensione. «A quattordici anni ero già nel Programma Reclute dello Sceriffo, al college ero un Ufficiale studente di Polizia e all’Università collaboravo con la Polizia di San Francisco per garantire la sicurezza pubblica nel campus. Avevo lasciato l’incarico nel 1987 con il grado di sergente».
Capelli e baffi scuri, occhi nerissimi e acuti, Gianrico Pierucci si esprime in inglese ma è italiano: è nato infatti nel 1963 in una minuscola località del comune di Frontone, nelle Marche, e in California ci è arrivato con i genitori quando aveva da poco compiuto quattro anni.
Era il novembre 1967. «L’anno seguente Zodiac cominciò a seminare il terrore ovunque», ricorda, «voleva instillare in ogni persona l’angoscia e la paura». Il killer aveva colpito la prima volta nel 1968 nella periferia di Benicia, nella California settentrionale, dove, pochi giorni prima di Natale, sparò e uccise con una 9 millimetri Luger due fidanzati di nemmeno diciotto anni. Sparì per un po’ e riapparve nel luglio ’69 quando, in un parco della città di Vallejo, fece fuoco contro un’altra giovane coppia, e mentre la ragazza morì, il compagno sopravvisse; a settembre, poi, scambiò un paio di parole con due studenti che si trovavano al lago Berryessa per un pic-nic – raccontò loro di essere un detenuto evaso dal carcere, di essere in cerca di denaro e di una macchina per fuggire in Messico -, e li costrinse a legarsi l’un l’altra con una corda e li pugnalò varie volte alla schiena prima di fuggire e di incidere sulla portiera dell’auto una serie di date corrispondenti ai tre attentati.
In quest’occasione il ragazzo, pur gravemente ferito, era riuscito a scampare alla morte (l’amica, purtroppo, non ce l’aveva fatta) e a fornire agli investigatori una descrizione dell’assassino.
Insieme al sangue, nell’enigma Zodiac ci sono anche quattro crittogrammi e una ventina di lettere. Le prime, contenenti particolari sui primi tre omicidi “che solo io + la polizia conosciamo”, avevano cominciato ad arrivare alle redazioni di alcuni quotidiani locali l’ultimo giorno di luglio 1969: erano tre e ciascuna di esse conteneva una parte di un unico macabro messaggio in codice lungo 408 caratteri/simboli (archiviato dalla polizia come Z-408), che una coppia di insegnanti di Salinas, a trenta minuti d’auto da Monterey, aveva decriptato otto giorni dopo. “Mi piace uccidere la gente perché è divertente”, comunicava nel delirante testo, “ed è perfino meglio dell’uccidere selvaggina nella foresta perché l’essere umano è l’animale più pericoloso di tutti. Uccidere qualcosa è l’esperienza più emozionante […] è ancora meglio che farsi la tua ragazza. La parte migliore di questo è che quando morirò rinascerò in Paradiso [Paradice anziché Paradise nel testo originale] e tutti quelli che ho ucciso diventeranno i miei schiavi”.
Tuttavia, era nei tre fogli che compongono la quarta lettera, curiosamente consegnata a mano il 4 agosto alla redazione del San Francisco Examiner, che Zodiac, fino a quel momento conosciuto sui media come l’assassino del codice cifrato, aveva scelto di presentarsi ufficialmente al mondo – “Caro direttore, è Zodiac che parla…” – e di gettare un guanto di sfida a coloro che gli stavano dando la caccia: “La Polizia se la sta spassando con il codice? Se così non è, dì loro di rallegrarsi. Quando lo decifreranno, mi cattureranno”.
In effetti, gli investigatori speravano che il suo vero nome emergesse proprio dai quattro crittogrammi da lui spediti tra il 1969 e il 1970, ma né il primo, lo Z-408, né il secondo, lo Z-340, decifrato lo scorso dicembre da un gruppo intercontinentale di “privati cittadini” (come li ha definiti l’Fbi) e da uno speciale software, lo hanno rivelato. «In quest’ultimo messaggio Zodiac scrive di non aver paura della morte, nemmeno della camera a gas, ma ai fini delle indagini tutto questo è poco rilevante. C’è bisogno di un nome, di un luogo, un indirizzo, una certa persona, un lavoro», aveva commentato Pierucci con una nota di delusione sul San Francisco Chronicle.
All’appello, dunque, ne mancano ancora due: lo Z-13, il più corto, e lo Z -32, spedito nel giugno 1970 insieme ad un’oscura mappa della Bay Area con tanto di simbolo tracciato dallo stesso criminale in corrispondenza del Monte Diablo. Per la verità, lo scorso giugno un ingegnere francese ha comunicato in rete di averli decriptati entrambi grazie ad un software di sua invenzione, impiegandoci rispettivamente un’ora e una settimana di tempo, ma le sue conclusioni (il refuso di un nome già sottoposto ad indagini) sono state aspramente criticate dalla comunità di appassionati per via della brevità dei messaggi e della mancanza di un contesto in grado di determinarne la chiave crittografica.
Sebbene da qualche anno l’ispettore italiano abbia riposto la divisa blu con lo stemma della fenice – per un periodo sostituita con l’equipaggiamento delle Swat, le celebri Unità Speciali che di norma collaborano con Fbi, Dea e altre agenzie federali -, non pensatelo impegnato a tosare l’erba del prato o a portare fuori il cagnolino o, ancora, a tinteggiare la staccionata di casa: quando non insegna Investigazione criminale al City College di San Francisco, impeccabilmente vestito con il suo completo gessato e con, in testa, uno dei suoi iconici Borsalino Fedora, capita che dia una mano a qualche giovane collega dell’Unità Omicidi a raccapezzarsi con le tante difficoltà che accompagnano i cold cases, le “piste fredde”, considerato che nella sua carriera ne ha gestite quasi duecento.
«Il caso Zodiac è ancora aperto e non posso dire nulla che non sia già di pubblico dominio per non interferire con le indagini: ciò che posso dire, invece, è che riavviare un cold case non è affatto semplice, soprattutto se si è costretti a concentrarsi anche su altri casi, ugualmente importanti. Prendiamo, per esempio, l’ “episodio” Stine, di cui mi sono occupato. Molti investigatori del tempo, penso al mio amico Dave Toschi [il primo ispettore di San Francisco a condurre l’inchiesta, immortalato insieme con il collega William “Bill” Armstrong e il loro capo, Marty Lee, nel film “Zodiac” di David Fincher, nda] con cui mi ero confrontato a lungo in passato, ma anche molti testimoni e possibili sospetti oggi non ci sono più, mentre altri, con il trascorrere del tempo, hanno finito per dimenticare molti particolari. Anche i luoghi dei delitti si sono trasformati, e allora succede che le foto che li ritraggono diventano per noi la sola scena del crimine su cui lavorare. Quanto al Dna», continua il detective-docente, «tutto dipende da come è stato conservato e, ovviamente, da dove è stato prelevato e a chi appartiene». Nel caso del “Killer dello Zodiaco” è quello rinvenuto anche sulle lettere e sui francobolli che qualche anno fa il Dipartimento di Polizia di Vallejo aveva fatto esaminare per ottenere il suo profilo genetico.
«Grazie alle informazioni fornite dal Dna, ad esempio, in passato la mia Unità è riuscita a dare volti e nomi ad alcuni serial killers: in un caso particolare ci ha permesso anche di collegare l’individuo ai tanti omicidi da lui commessi nell’arco di decenni in buona parte degli Stati Uniti. Tornando invece alle indagini su Zodiac, negli anni scorsi io e i miei collaboratori abbiamo trascorso giorni e notti al telefono e attraversato l’intera California per raccogliere le informazioni, i sospetti e le testimonianze, a volte davvero inverosimili, di tante persone. C’è stato chi era convinto che l’assassino fosse il padre naturale, chi il patrigno, chi il migliore amico, chi il collega, e c’è stato persino chi aveva preparato un puntiglioso fascicolo con le conclusioni a cui erano giunte le proprie indagini. Arthur Leigh Allen è stato a lungo il sospettato numero uno per via di certi fatti e circostanze, ma anche le figure di Earl Van Best jr e di tanti altri hanno attirato le nostre attenzioni investigative», conferma. «Questa vicenda è stata indagata per cinquantadue anni dalla Polizia di San Francisco e per molto tempo anche da quelle di Napa, Benicia, Vallejo oltre che dai colleghi di Riverside, entrati in scena per via dell’omicidio della diciottenne Cherie Jo Bates, nel 1966. Ci sono ancora tante strade da percorrere e sono convinto che se ogni delitto fosse rivisto a fondo, e tutte le strade fossero esplorate di nuovo, il caso potrebbe essere risolto. E’ vero che il tempo non è dalla nostra parte, ma credo che se una squadra di investigatori di ogni Dipartimento, la task force dell’Fbi e altre agenzie statali lavorassero insieme e condividessero tutte le informazioni, senza distrazioni, riuscirebbero ad unire tutti i punti e a portare alla luce la verità», afferma ancora Pierucci, che tra le tante cose fatte nella sua lunga carriera c’è pure la comparsa cinematografica. «Proprio così: negli anni Ottanta sono apparso nel film di Clint Eastwood “The Dead Pool”, il sequel di “Dirty Harry – Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!”. Clint voleva sul set veri agenti di polizia, non attori».
In tempi più recenti ha inoltre partecipato alla parata per il Columbus Day vestendo la Grande Uniforme Speciale dei Carabinieri. «Mi onoro di essere anche tra i fondatori del San Francisco Chapter dell’Associazione Nazionale Carabinieri e sono davvero orgoglioso dei miei fratelli e delle mie sorelle che in Italia proteggono le nostre famiglie. Amo tantissimo l’Italia e amo Frontone, dove ho ancora amici e parenti: a proposito, se le piace la buona cucina marchigiana, le consiglio un certo ristorantino dalle mie parti…». E’ proprio vero: non di solo Zodiac può vivere un poliziotto.
Monica Zornetta (7Sette, Corriere della Sera, 22 agosto 2021)
il pdf: CRONACA ZODIAC (1)