Napoli, non solo Gomorra. Parla don Aniello Manganiello

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Gli occhi di don Aniello Manganiello brillano quando il pensiero va a Scampia, la “sua” Scampia: quella del popoloso rione don Guanella, sfregiato da una moltitudine di palazzi anonimi, di case popolari occupate abusivamente, del degradato lotto K e dalla tangenziale 167; ma anche della chiesa di Santa Maria della Provvidenza, dove per 16 anni è stato sacerdote e animatore (nonché, si potrebbe aggiungere, amico, talvolta figlio, all’occorrenza padre dei suoi parrocchiani). Brillano, i suoi occhi, ma non piangono più. Da quella torrida estate 2010 in cui la Curia di Napoli decise di trasferirlo nella pulita, nutrita e agiata parrocchia di Roma Trionfale, ne ha versate tante di lacrime. «Io e il quartiere eravamo una sola anima», dice, “pretaccio” esuberante eppure trasfuso di semplicità, conosciuto dal nord al sud d’Italia come il “parroco anticamorra” in quell’angolo di Napoli mal raccontato nel film “Gomorra”.

«In questi anni insieme a molti parrocchiani abbiamo sfidato le violenze dei clan, i soprusi, i ricatti, le minacce. Io stesso ho subito intimidazioni molto pesanti: ciononostante non ho voluto che mi fosse assegnata la scorta. Perché, e di questo sono convinto, è nel dna di un prete schierarsi dalla parte di chi subisce le ingiustizie. E di andare fino in fondo.

«“Per amore del mio popolo non tacerò”, diceva il profeta Isaia. Bene, per amore di quel popolo che mi è stato affidato, di fronte a tante prepotenze, sofferenze, dinnanzi a una paura che lo opprime fino al punto di non consentirgli di parlare, di denunciare, ho sentito il bisogno di battermi. Di restituire la fiducia, di rappresentare, per la mia gente, l’esempio di un cambiamento». Quella stessa proposta di cambiamento che, prima di lui, aveva offerto don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe, nel Casertano, e per questo assassinato dalla Camorra dei Casalesi una mattina di marzo del 1994.

Nato 59 anni fa – cinque mesi dopo la morte del padre – a Camposano, un paesino dell’Agro nolano distante una trentina di chilometri da Napoli, ultimo di otto figli in una famiglia povera ma molto religiosa, Aniello sorride, socchiudendo gli occhi castani e profondi. E’ un uomo forte, come racconta la ragnatela di rughe che la vita gli ha tessuto sul viso, e custodisce una insaziabile voglia di lottare per gli “ultimi” portando senza paura il Vangelo sul marciapiede. Don Manganiello, insomma, è uno di quelli che non possono tacere.

(Ph. Mario Scrobogna/LaPresse)

Veste casual, tutto in nero, con il gagliardetto blu della Asd Polisportiva don Guanella – la squadra di calcio giovanile del Centro religioso di Scampia di cui è presidente – orgogliosamente cucito al giubbino. Il collarino candido d’ordinanza, di solito slacciato, è adesso impeccabile.

E’ grazie a lui se la parrocchia dell’Opera Guanella è diventata un punto di riferimento per molti, nel quartiere; un presidio della legalità in una zona in cui il 60-65% della popolazione è senza una occupazione e che, proprio per questo, finisce per ingrossare le file della Camorra, la sola “istituzione” che permette a molti di campare.

Quando è arrivato a Scampia dal Trionfale, il Centro era stato trasformato in una specie di deserto. «Gli spazi furono affidati ad operatori esterni e non più utilizzati per attività gestite dagli stessi sacerdoti», ha ricordato nel libro “Gesù è più forte della Camorra”, scritto con il giornalista Andrea Manzi e pubblicato nel 2011 dalla Rizzoli. «Quando arrivai, nelle aule del catechismo non c’erano nemmeno i tavoli di lavoro, mancavano le strutture all’aperto. Spogliatoi, aule e stanze erano fatiscenti».

Lo stato di degrado era così avanzato che alcuni dei malviventi del posto usavano rubare addirittura l’acqua. «Tra i miei primi atti, dovetti sbrigare il problema di una megabolletta: quattro milioni di lire. Feci una rapida indagine e scoprii che gli importi milionari c’erano anche prima del  mio arrivo a Scampia. La comunità dei confratelli, per non avere fastidi, pagava regolarmente quelle somme palesemente gonfiate». A molte famiglie sottraevano pure la corrente elettrica; tanto, e questo i criminali lo sapevano, nessuna di loro avrebbe sporto denuncia. «Non hanno mai detto nulla in giro perché la paura è più grande del danno economico. E per anni hanno pagato l’acqua ai camorristi, tacendo. “Padre, teniamo figli”, mi dicevano quando cercavo di convincerli dell’opportunità di denunciare. Probabilmente, aspettavano l’esempio».

Azioni piccole, intime, eppure grandi, grandissime, come il suo ripetuto rifiuto di impartire i sacramenti ad alcuni boss mai pentiti del clan Lo Russo, affiliato all’Alleanza di Secondigliano; di celebrare i loro matrimoni o i battesimi dei figli. E poi lo smascheramento di tutto ciò che di poco pulito vedeva lungo le strade, le piazze, il mercato della sua Scampia. «Ho denunciato il racket del pizzo al mercato di via don Guanella, dove, per la semplice occupazione del suolo pubblico con un banco, i commercianti dovevano versare ai boss di 2 mila ai 3 mila euro. A queste bisognava aggiungere, ogni due settimane, una sorta di pedaggio che andava dai 5 ai 10 mila euro: ciò permetteva all’ambulante di Scampia di “garantirsi” l’esclusiva su quell’area. Dopo le mie segnalazioni, avvenute anche attraverso la televisione, sono stato affrontato da alcuni giovani. Una sera, mentre stavo chiudendo il cancello del Centro don Guanella, mi urlarono, da dentro un’automobile nera:  “Infame, te la faremo pagare”». Nel 2001, per la cronaca, la Camorra chiese – ma non ottenne –  il pagamento del pizzo perfino alla parrocchia.

«Una volta raccontai all’inviato di una trasmissione nazionale, Le jene, ciò che la Camorra fa ed è. Ricordo che mentre accompagnavo il giornalista tra le vie del rione, a piedi, e gli indicavo la casa di questo o quel camorrista, e le piazze e piazzette dello spaccio della droga, alcune persone in motorino avevano cominciato a girarci intorno, a circondarci, gridando: “Ma tu non la vuoi proprio finire di parlare eh?! Siamo stanchi delle tue denunce e delle tue parole!”».

Il volto di Aniello ha oggi una espressione serena, ma il bruciante turbamento che vaga, ancora un po’, nella sua anima, affiora da molte parole. «Ritornassi parroco a Scampia, rifarei le stesse cose. E affronterei di nuovo col cuore limpido anche le minacce di querela dell’allora sindaco di Napoli, Rosa Russo Jervolino, una volta messa di fronte alle proprie responsabilità, e gli insulti del suo successore, Antonio Bassolino, che mi diede, senza mezzi termini, del “mascalzone”.

«Non sono state tanto le minacce del clan né la coscienza della complicità di molti appartenenti alle forze dell’ordine con ‘O Sistema (così è chiamata la Camorra dai suoi affiliati, nda) a farmi soffrire, quanto i rimproveri ricevuti dal cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe, che mi ha accusato di aver rilasciato quell’intervista solo per mettermi in mostra. E’ ora di finirla, mi disse. Io, invece, sapevo a quali pericoli mi stavo esponendo, ma l’ho fatto, ho parlato. Rammentando ancora una volta le parole di Isaia contenute nella Bibbia, per amore di quel popolo io ho preferito non tacere».

Negli anni vissuti in mezzo a quell’umanità ferita, come la chiama Aniello, “armato” solo di fede e di volontà di rendere concreti, tangibili, concetti come solidarietà, misericordia e legalità, non tutti hanno avuto il coraggio di parlare. «La chiesa meridionale, per esempio. Nessuno dei suoi “pastori”, nemmeno il cardinale Sepe, ha alzato la voce per richiamare al rispetto degli impegni assunti il comune di Napoli, il quale, da qualche anno ormai, ha smesso di dare il proprio contributo di 12 euro al giorno per il funzionamento della casa famiglia del Centro don Guanella. In questo “presidio” della giustizia e della speranza, arrivano ragazzini che provengono da famiglie malavitose, povere (e non solo economicamente), con problemi di tossicodipendenza, o di prostituzione e di violenza sessuale. Questi giovani li seguiamo da quando escono da scuola e fino a sera, cercando di proporre loro delle alternative di vita. Prendendo a prestito due personaggi de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, dico che no, non vogliamo essere dei don Abbondio ma intendiamo fare nostri il coraggio e la devozione autentica di fra Cristoforo.

«Anche la chiesa, qui, è Camorra», commenta, risoluto e tuttavia addolorato, «indifferente com’è al fatto che a pagare il prezzo più alto della sua negligenza siano i ragazzini. Ma si rende conto che smettendo di  aiutare un centro come il don Guanella, e con esso anche gli altri semi convitti e case famiglie delle zone più disagiate di Napoli, gestite prevalentemente da congregazioni religiose, fa il gioco della Camorra? Io chiedo, con il cuore in mano: ma tu, chiesa, che ci stai a fare? Solo a celebrare? E la formazione delle coscienze, l’educazione dei più giovani, dove la metti? E che dire, poi, del tuo silenzio assordante di fronte alle discutibili scelte compiute dalla politica italiana negli ultimi vent’anni? Scelte che hanno generato un individualismo talmente sfrenato che ha portato gli italiani, specie i più giovani, a credere che, attraverso la politica, il denaro, e calpestando gli altri, i propri fratelli, si possa comprare tutto.

«Di fronte alla corruzione, allo sfruttamento, agli scandali – nel 2010 un arcivescovo molto noto, Monsignor Rino Fisichella, giustificò una bestemmia proferita da Silvio Berlusconi, a quel tempo premier, spiegando che “bisogna sempre in questi momenti saper contestualizzare le cose” –  non ti sei mai pronunciata perché, lo sappiamo, dietro le quinte coltivi i tuoi interessi. E’ chiaro che la chiesa che io vorrei non è questa», aggiunge, aggrottando un poco le sopracciglia. «La chiesa che vorrei non ha paura ma si fa sale e lievito della massa, scende in mezzo alla gente e impara, finalmente, ad ascoltarla».

Parlare di Papa Francesco lo emoziona molto, gli illumina gli occhi. «Francesco mi ricorda il prete che mi ordinò sacerdote, il 29 marzo 1980. In cuor mio speravo che il successore di Benedetto XVI fosse un sudamericano».

Il “prete”, come lo chiama Aniello, altri non era che il cardinale argentino – di origini friulane – Eduardo Francisco Pironio, morto nel 1998 a Roma e dal 2006 al centro del processo diocesano di beatificazione. «Quel giorno di marzo 1980, durante l’omelia, in un passaggio che mi colpì e che sentii quasi come un “mandato” assegnatomi, Pironio disse: “Mentre in America centrale, a El Salvador, si stanno svolgendo i funerali dell’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, assassinato sull’altare [il 24 marzo 1980, nda] da un componente degli squadroni della morte, arriva la risposta di Dio, che non è l’odio, ma l’amore e il dono di un nuovo sacerdote alla Chiesa», ha rievocato ancora nel suo libro.

I temi della speranza, della gioia, della misericordia, dell’umiltà ma anche della mancanza di pregiudizi nei confronti degli altri e della loro accettazione: ecco che cosa accomuna Jose Mario Bergoglio, Eduardo Francisco Pironio e pure lo stesso Aniello Manganiello. «Quando sono arrivato a Scampia ero pieno di pregiudizi nei confronti di quella gente, ero infarcito di immagini che non corrispondevano alla realtà ma si erano formate su impulso di certi media, di certo giornalismo di bassa lega che punta solo a stuzzicare la morbosità, lasciando volutamente da parte le grandi risorse che essa, invece, possiede».

Anche Aniello, però, come la “sua” gente, ad un certo punto è stato lasciato solo. Dipinto dalle alte gerarchie come una specie di inaccettabile showman, nel 2010 gli è stato ordinato di lasciare Scampia per un nuovo, più prestigioso incarico alla Casa di San Giuseppe, ancora al Trionfale, a Roma. L’addio, comprensibilmente, non è stato facile: né per lui, né per i suoi parrocchiani. «C’era la percezione diffusa che, non so dire se scientificamente, le gerarchie ecclesiastiche avessero finito proprio per fare il gioco della criminalità che voleva la mia emarginazione», ha cercato di sottolineare in “Gesù è più forte della camorra”. «Il prefetto Alessandro Pansa, appresa la notizia, scrisse una lettera ai miei superiori in cui evidenziava l’insostituibilità della mia persona. La Congregazione nemmeno gli rispose.»

Aniello ha avuto pure la tentazione di lasciare l’Opera don Guanella pur rimanendo sacerdote, collocandosi fuori della Congregazione. Alla fine, comunque, dopo tanti tormenti interiori, ha deciso di obbedire. «Posso dire che Dio non poteva farmi dono più bello», aveva scritto ai fedeli poco prima di partire per la Capitale, «è stato veramente un dono meraviglioso poter annunciare il Vangelo della giustizia, della carità, lottare per i poveri, per le vittime della violenza camorristica, dare speranza ai disperati, e poter dare una parola di conforto ai sofferenti. […] Don Guanella raccomandava ai suoi preti di dare ai poveri pane e Signore. Aggiungeva: “Fermarsi non si può finché ci sono poveri da soccorrere”. Ho cercato di muovermi in questa linea perché convinto che è una grave offesa dire a un povero “Dio ti ama” e non fare nulla per alleviare la sua difficile condizione […] Ritorno a Roma malvolentieri, con una grande ferita nel cuore ma non dimenticando questa grande famiglia per la quale continuerò a impegnarmi concretamente. Obbedisco con la ragione e non con il cuore».

Dopo tre mesi trascorsi al Trionfale, nel gennaio 2011 ha scelto di allontanarsi per un periodo dalla parrocchia e fare ritorno nella sua terra, nel paese dove è nato e dove ancora risiede la sorella.  «Ho bisogno di silenzio, preghiera e riflessione, in questi luoghi dove mia madre mi ha insegnato ad abbandonarmi nelle mani di Dio e mi ha trasmesso il valore del perdono. Oggi vivo in un quartiere Gescal, popolare, e do una mano al parroco. Non sono parroco né viceparroco. Non ricevo nulla dalla chiesa. Nel maggio 2012 ho fondato l’associazione “Ultimi”, per la promozione dei valori della solidarietà e della legalità. Sono convinto che in tanti territori siano la povertà e il disagio sociale, la disoccupazione e la mancanza di cultura le cause primarie del radicamento della criminalità organizzata. Ecco perché legalità e solidarietà vanno pensati sempre insieme.

«Anche il nostro Paese ha bisogno di ritrovare questo. E pure l’Europa. Come? Ponendo in primo piano l’uomo e le sue necessità, non più le banche o le lobby della finanza. E’ arrivata l’ora che la scuola, la chiesa, le istituzioni, si mettano insieme, una accanto all’altra, per costruire un’autentica comunità di persone e un’economia davvero giusta e solidale.»

Monica Zornetta (Radici, n.67/68, 2013)

Napoli: non solo Gomorra