Caporetto. Ceschin: «La “memoria di minoranza” che racconta un’altra guerra»

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«Molte delle pagine riferite al complesso fenomeno del profugato sono state volontariamente rimosse durante l’operazione di costruzione del mito della prima guerra mondiale. La narrazione creata soprattutto dal regime fascista si è soffermata sulla celebrazione delle virtù guerriere dell’esercito – a dispetto della disfatta – ma non fa alcun cenno a ciò che ha significato, per il tessuto sociale dei luoghi dove il conflitto si è espresso, la scelta da parte dei civili di fuggire dal nemico o di subirne l’occupazione. Non si sofferma, inoltre, sui motivi specifici di queste decisioni; non parla degli abusi subiti e dalla fame patita da quanti sono rimasti nelle terre invase o, ancora, delle colpe morali fatte strumentalmente ricadere su di loro a dominazione austriaca conclusa. Tutto questo è però conservato nella memoria delle comunità locali, ed è quella che, storiograficamente parlando, è riconosciuta come “memoria di minoranza”, grazie alla cui accettazione è possibile comprendere fino in fondo la portata della Grande Guerra».

A spiegare il vuoto che ha accompagnato questa controversa pagina della storia nazionale è Daniele Ceschin, già docente a contratto all’Università Cà Foscari di Venezia e autore di un saggio, “Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra”, pubblicato nel 2006 per i tipi di Laterza, considerato il più documentato studio sul profugato nel nostro Paese. Una pagina infarcita di polemiche, di accuse, di soprusi dove si scopre che, a dispetto delle responsabilità loro assegnate, i primi a lasciare i propri paesi o città e i propri incarichi sono stati i vertici della società laica e borghese (sindaci, prefetti, insegnanti, funzionari…), anziché il popolo, e dove lo Stato ha rivelato la propria totale inettitudine allestendo una macchina di soccorso piena di falle e di ingiustizie. «Si è trattato di un esodo senza precedenti avvenuto in un lasso di tempo brevissimo: appena qualche settimana. E’ stata una catastrofe nazionale che ha avuto ripercussioni simili a quelle delle calamità naturali, come i terremoti o gli tsunami. Anche il secondo conflitto ha avuto il suo elevato numero di sfollati, ma in quel caso erano “spalmati” nei cinque anni di guerra. Per chi è scappato, la propaganda ha creato una narrazione specifica: quella del buon patriota, del vero italiano, disposto a lasciare la propria casa, i propri affetti, la propria occupazione per non finire nelle mani dei nemici austriaci; per chi è rimasto, invece, la propaganda non ha avuto alcuna pietà».

La copertina del libro

I rapporti tra i civili rimasti nei luoghi invasi e l’esercito occupante non sono sempre stati caratterizzati dalla violenza, come invece la “memoria ufficiale” ha tramandato, scegliendo oculatamente che cosa valorizzare e cosa censurare. «Negli anni Novanta in Europa c’è stata una rinnovata attenzione da parte degli storici verso la storia militare e politica della Grande Guerra, tuttavia la loro attenzione si è concentrata sul vissuto dei soldati, e non su quello dei civili durante il conflitto. In che modo avevano subito la guerra, perché alcuni se n’erano andati e altri no? Che cosa era loro successo, poi, a guerra finita? Ho deciso di affrontare questa poco indagata pagina della storia, studiando le fonti ufficiali e le fonti soggettive, vale a dire le memorie, quelle storie di paese che molti storici avevano trascurato, le migliaia di lettere che i profughi scrivevano ai propri deputati per chiedere aumenti al misero sussidio di una lira e 25 al giorno o per essere trasferiti in Italia settentrionale, considerato che la grande maggioranza di loro dal novembre 1917 viene caricata su treni diretti a Milano e poi smistata: chi nelle zone adriatiche, chi in quelle dei castelli romani, chi in Puglia o in Campania. E’ solo grazie a questa grande mole di documenti, reperiti soprattutto all’Archivio centrale dello Stato, che ho scoperto o riletto i fatti con occhi nuovi. Ho capito per esempio come i profughi non fossero molto amati dai locali poiché questi ritenevano che i nuovi arrivati portassero via loro il lavoro; come i pregiudizi nei loro confronti fossero fortissimi, tanto che molto spesso, sia nella memorialistica che nelle fonti orali, l’immagine che viene più spesso associata ai profughi è quella dei “mangiatori di bambini”. Ho scoperto come in quei pochi anni fosse aumentato il numero dei figli illegittimi e dei casi di prostituzione delle profughe; che per riuscire a sopravvivere molti piccoli veneti e friulani dovettero andare a rubare nei campi e negli orti – una pratica scomparsa ormai un secolo prima – che, per non morire di fame, intere famiglie fossero costrette a chiedere la carità lungo le strade».

Monica Zornetta (Avvenire, 18 ottobre 2017)