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Sembra un secolo da quando, nel nostro Paese, industria conciaria e inquinamento erano le due facce di una stessa medaglia. Da quando, per produrre quelle pelli che all’estero andavano – e vanno – per la maggiore, gli imprenditori e i politici preferivano chiudere gli occhi davanti agli scempi all’ambiente.

Se poi prendiamo il Gruppo Dani di Arzignano, nella valle del Chiampo – distretto conciario tra i più importanti d’Italia – e ne leggiamo la storia, ecco che il tempo trascorso pare essere addirittura di più. Nata negli anni Cinquanta da Angelo Dani, mezzadro vicentino, come piccola conceria a conduzione famigliare, con il tempo e la lungimiranza dei nove eredi (in particolare del più giovane, Giancarlo) l’azienda si è evoluta diventando una sorta di “tempio dell’innovazione conciaria”, dove per innovazione non intendiamo solo la produzione di pelle 100% made in Italy, certificata, tracciata e capace di performance elevate, ma anche l’attenzione e l’impegno per la salute dell’ambiente e delle persone. Tutte caratteristiche che hanno reso la pelle prodotta da Dani una garanzia per colossi del settore automobilistico ed elettronico/informatico e per griffe della moda, che la utilizzano per realizzare le custodie degli ipad, i rivestimenti dei sedili e degli interni delle auto, gli abiti, le borse, le scarpe, i complementi d’arredo.

“Siamo stati i primi al mondo a calcolare le emissioni a effetto serra dei nostri prodotti”, esordisce il presidente Giancarlo Dani, 67 anni, da due Cavaliere del Lavoro, “e i primi anche a produrre un tipo di pelle totalmente senza cromo e metalli pesanti, frutto di una ricerca durata dieci anni”.

Quello della sostenibilità come parte integrante della qualità dei prodotti è un pallino della Dani da sempre: “Lo è senz’altro fin dagli anni Settanta, quando, lavorando fianco a fianco con amministratori locali intelligenti abbiamo cominciato a conferire le acque reflue conciarie nell’impianto di depurazione consortile di Arzignano, il più grande del Veneto”, conferma Dani. “Negli ultimi dieci anni abbiamo inoltre ottenuto numerose importanti certificazioni internazionali di sistema e di prodotto, e da due compiliamo il Bilancio di sostenibilità. Ci impegniamo continuamente per ridurre il consumo di acqua, l’utilizzo di prodotti chimici e la produzione di rifiuti nelle fasi di lavorazione delle pelli e, sempre in nome di questa nostra anima green, puntiamo a recuperare e valorizzare ancor di più i sottoprodotti del ciclo conciario. Vogliamo riscattare l’eccellenza e contribuire a demolire definitivamente i pregiudizi che ancora oggi esistono nei confronti del settore”.

Il Gruppo Dani, che conta oggi 680 dipendenti di cui oltre la metà proveniente da Paesi extracomunitari, investe ogni anno l’1,5% del fatturato (di 200 milioni di euro) nella ricerca e nello sviluppo e partecipa ad importanti progetti europei.

“Abbiamo superato tante crisi, e ogni volta ne siamo usciti più forti di prima: il merito è anche dei tantissimi lavoratori stranieri che da vent’anni sono in Dani; senza di loro di sicuro non avremmo raggiunto questi fatturati”. E probabilmente nemmeno senza un certo gusto per il “rischio”, come quando, nel 2008, mentre la gran parte delle concerie tirava i remi in barca nel mare in tempesta della crisi economica, hanno acquisito la Leather Gbr, una azienda in default della zona e, grazie a questa, sono entrati nella divisione automotive, collaborando con le più importanti case automobilistiche mondiali.

“Dal 2004 abbiamo filiali commerciali negli Stati Uniti e in Cina, due anni fa abbiamo aperto uno showroom ad Hong Kong e siamo diventati partner di uno stabilimento in Slovenia (dove si tagliano e cuciono le pelli per il settore auto). Quando sono state demolite le frontiere e il mondo è diventato globalizzato”, conclude Giancarlo Dani, sintetizzando la propria ricetta per il futuro, “ho capito che, per restare al passo coi tempi, le aziende italiane non devono aver paura di crescere; devono imparare a diventare sempre più manageriali e sempre meno “padronali”. Spero davvero che un approccio di questo tipo ci porti ad essere – finalmente – più collaborativi e meno invidiosi l’uno dell’altro”.

Monica Zornetta (Avvenire, 17 marzo 2017)