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Il termine “sostenibilità” è oggi sulla bocca di tutti, quasi fosse una formula sciamanica, e viene applicato sic et simpliciter ad ogni cosa: alla moda, all’agricoltura, all’architettura, alla cucina, al turismo, alla medicina, alla società. E, naturalmente, all’economia. Ma è bastato un virus, dal diametro di un centinaio di nanometri, a rendere insufficiente questo aggettivo. La pandemia di Covid 19, infatti, non solo ci ha messo inaspettatamente di fronte alla nostra vulnerabilità ma ha reso ormai non più differibile la necessità di cambiare – o, per meglio dire, di far evolvere – il nostro paradigma economico, portandolo ad ampliarsi, a interagire e a dialogare con la Comunità per generare un bene preziosissimo: la coesione sociale.

«Cambiare i nostri paradigmi significa permettere alla Comunità, alla società – e, per rimanere in ambito economico, all’impresa – di riprogettarsi, di essere reattive anche dinnanzi ai conflitti e di rafforzare nei propri membri il senso e il valore dell’appartenenza. La coesione sociale è oggi un bene oltremodo fondamentale perché quanto più in una impresa o in un’organizzazione (cioè in una porzione di Comunità) crescono le masse delle interazioni, tanto maggiori saranno il loro grado di compattezza e la loro capacità di reazione non soltanto alle esigenze del mercato ma anche alle emergenze». A spiegare come sia arrivato il momento di ripensare il modo in cui intendiamo (non solo) la nostra economia è Gian Piero Turchi, docente di Psicologia clinica e di Psicologia delle differenze culturali e della devianza all’Università di Padova, che continua: «Le imprese sono importanti laboratori di Comunità, hanno un’eccezionale potenzialità dialogica interna e di coesione sociale ed è per questa ragione che dopo il primo lockdown sono riuscite ad essere estremamente rapide nel riorganizzarsi in base a ciò che l’emergenza sanitaria richiedeva». Il che significa che molte delle imprese, grazie a questa interazione costante con le esigenze della Comunità, sono riuscite a riconvertire in tempi brevissimi il proprio business producendo mascherine, gel disinfettanti, respiratori, camici, distanziatori in plexiglass e dispositivi medicali per la cosiddetta economia da Coronavirus. «Dobbiamo passare da una visione economica tipicamente anglosassone, quella dei portatori e preservatori di interesse, o Stakeholders, ad una più socialmente responsabile, da Community holders, capace di tener conto del nostro essere membri di una specie comune e che presuppone partecipazione, condivisione e collaborazione», continua il professore. Un’economia della coesione, insomma, che aiuta il tessuto sociale a rigenerarsi e all’impresa ad individuare nuovi meccanismi di produzione di valore.

Turchi, che è anche presidente del World Mediation Forum e responsabile scientifico di Hyperion, l’Osservatorio sviluppato nell’Ateneo patavino che studia il grado di coesione sociale della Comunità, in questo caso veneta, per mezzo dell’analisi dei testi prodotti dai social e dai mass media, non ha dubbi sul fatto che «l’interazione dialogica delle imprese e delle organizzazioni con la comunità esterna (cittadinanza), ma anche con quella interna (ruoli delle organizzazioni), crea un valore, cioè la coesione, che risulta tanto importante quanto lo sono, di norma, il reddito, la produzione, il flusso di finanziamenti etc.». Un esempio è quello rappresentato dalla risposta data dalla Comunità nel corso del primo lockdown. «In quel periodo abbiamo avuto il grado di coesione sociale più alto in assoluto: questo perché l’obiettivo da perseguire era chiaro per tutti ed era un obiettivo di Comunità, non di società (che, invece, prevede il mero rispetto di leggi, regolamenti, ordinanze e via discorrendo); le istituzioni facevano appello alla responsabilità di tutti e alla convinta condivisione collettiva dello stesso obiettivo. Quando siamo entrati nella fase due abbiamo cominciato, invece, ad osservare che il livello di coesione si stava abbassando e poi, una volta arrivata l’estate, abbiamo capito che l’obiettivo si era totalmente sfilacciato. Il valore dell’interazione era ormai cambiato e non esisteva più una convergenza comune».

Secondo il docente, tale assetto interattivo rende conto di come non si sia anticipato ciò che avrebbe potuto generare, a livello di Communitas, quanto si stava attuando. «Credo che in una situazione straordinaria come è una pandemia, il parlare di errori non porti molto lontano: dico, però, che potevamo essere tutti più reattivi, potevamo anticipare ciò che sarebbe potuto succedere – poiché una emergenza ha riverberi su tutte le realtà che formano la Comunità: dalle attività produttive alla cultura, dalla scuola alla ristorazione e via dicendo -, ed estendere la nostra riflessione anche su questioni più tecniche anziché concentrarci esclusivamente su aspetti clinici e sanitari. Proprio perché tutti noi abbiamo uno sguardo di Communitas, e non solo di Societas, avremmo dovuto capire quanto è importante tutelare la massa delle interazioni, e che poter visitare un museo, andare al ristorante, entrare in un negozio, non sono solo azioni che riguardano l’economia in senso stretto ma sono occasioni che aiutano a sviluppare e mantenere alta questa massa fondamentale di scambi e, quindi, ad assicurare la coesione sociale. Se le politiche pubbliche realizzano che questi sono snodi dialogici che concorrono alle interazioni, ecco che il cittadino si sente ingaggiato come membro di una specie e come parte della Comunità: a quel punto la mascherina e la distanza di sicurezza non sono più obblighi dettati da norme di legge e suscettibili di sanzioni ma diventano pratiche condivise e applicate per il bene comune».

Monica Zornetta (L’economia civile – Avvenire, 24 marzo 2021)