“Lewis” Albanese, il soldato di Vicenza che morì in Vietnam

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Primo dicembre 1966, Vietnam centro-meridionale. Nella fitta giungla che sfiora Phu Huu 2, un villaggio di contadini sul delta del Mekong, proprio al centro della provincia di Binh Dinh, c’è un plotone che avanza. E’ formato da soldati poco più che diciottenni, inquadrati nel quinto Battaglione (1a Divisione) del settimo Reggimento Cavalleria, chiamati al fronte da ogni parte del Paese per scovare e – lo impone la feroce Operazione Thayer II allestita dallo US Army – distruggere il nemico vietcong.

E’ ormai pomeriggio quando arrivano al villaggio. Hanno marciato per ore, con il cuore in gola, lungo i sentieri minati dell’altopiano; hanno attraversato paludi e foreste ammorbate di insetti e di umidità con il frusciare incessante delle pale degli elicotteri Huey e il lugubre sibilo degli spari ad accompagnare ogni passo. E ora, divisi in squadre, stanno perlustrando la zona.

Phu Huu 2 sembra essere disabitato; è tagliato in due da un fossato che alcuni soldati si apprestano a costeggiare. Uno di loro, un caporalmaggiore di origini italiane, si accorge però che al di là di una boscaglia inaccessibile, proprio alle spalle delle umili capanne in paglia e bambù, ci sono fortificazioni difensive e truppe di guerriglieri pronte all’attacco; nota inoltre che il fossato è collegato a quei manufatti per mezzo di minuscole

Louie con un amico, in Vietnam

trincee. Intuisce che si tratta di un’imboscata. Così, Luigi “Lewis” Albanese, tranquillo ventenne nato a Cornedo, in provincia di Vicenza, emigrato insieme con i genitori a Seattle quando di anni ne aveva due, impiegato nell’azienda aerospaziale Boeing e appassionato della sua Pontiac, decide di agire per difendere i compagni. Si stacca perciò dal gruppo, salta nel fossato e, strisciando sulla pancia, preme il grilletto del suo M16 contro alcuni cecchini nascosti nelle trincee, uccidendone sei; poi, senza più munizioni e ferito dai colpi degli AK47 dei guerriglieri, ha il coraggio e la forza di affrontare in un ultimo, disperato corpo a corpo altri due vietcong, avendo la meglio.

La sequenza degli spari richiama gli altri del plotone, ma quando arrivano sul ciglio del fossato, Luigi è già morto. Nell’irreale silenzio che adesso avvolge il villaggio, i giovani soldati capiscono che il generoso compagno ha sacrificato la propria vita per salvare la loro.

La notizia dell’uccisione di Lewis non ci mette molto ad arrivare fino a Seattle, dove vivono la madre, Giannina Maule, e la sorella minore Rosita: papà Rodolfo, che a Cornedo tutti chiamavano “Raul l’americano”, non abita più con loro. Quando due ufficiali, una mattina presto, suonano al campanello di casa, le due donne capiscono immediatamente ciò che è successo al loro ragazzo, laggiù, nel sud est asiatico, ma dovranno aspettare ancora qualche giorno prima di conoscere i dettagli di quella morte.

Il 16 febbraio 1968, un anno e un paio di mesi più tardi, nella sede del Pentagono, a Washington, il Segretario dell’Esercito, Stanley Rogers Resor, consegnerà nelle loro mani la prestigiosa Medal of Honor del Congresso, la più alta onorificenza militare statunitense mai consegnata a un italo americano per la guerra in Vietnam. Per “l’atto di coraggio e ardimento a rischio della propria vita sopra e al di là del richiamo del dovere mentre [era] impegnato in uno scontro con un nemico degli Stati Uniti”, reciterà la motivazione. Nonostante ciò, la sua storia e il suo gesto sono rimasti per anni nell’oblìo: a riportarli alla luce, nel 2013, è stato Franco Lovato, avvocato italo-tedesco con la passione per il Nord America e per il Vietnam (e con studio proprio a Cornedo), che al giovane eroe ha dedicato parte di un volume, “Echi di pianto dall’Indocina Francese”, e il documentario “La guerra di Luigi”.

Louie con Stanley Henry Saloy a Fort Carson, Colorado, dicembre 1965

Per scrivere il libro è andato a visitare i luoghi dove Albanese ha vissuto e quelli in cui è morto; ha incontrato la sorella, gli amici più cari, la zia materna, che dalla sua casa in provincia di Vicenza ha ricordato come il nipote sognasse di tornare in Italia, una volta concluso il servizio militare. “Un ex docente americano di Luigi lo ha definito uno di quegli ottimi cittadini che non si mettono mai sotto i riflettori fintantoché non fanno qualcosa nella quale credono fermamente”, racconta l’avvocato-scrittore, che ha voluto dedicare il libro “a tutti quei giovani che hanno dato la loro vita per un ideale e non sono mai stati chiamati eroi”.

Da quel dicembre 1966 Lewis riposa nel cimitero militare di Seattle e dal marzo 2014, grazie al libro di Lovato, la “sua” Cornedo gli ha intitolato una via.

Monica Zornetta (Avvenire, 30 novembre 2016)