Il collocamento sporco. Corruzione e caporalato in Veneto

Veneto, una terra dai molti interessi criminali
04/02/2009

Tre euro l’ora. Talvolta 3 euro e 50 centesimi per 12 ore al giorno. Venivano retribuiti così, dagli zelanti caporali, i circa mille operai stranieri, provenienti soprattutto dalla Romania, dall’Ucraina, dalla Repubblica Ceca e dalla Polonia, incappati in una presunta organizzazione criminale vicina a Cosa Nostra e alla Camorra che li sfruttava come muratori o carpentieri nei cantieri di mezza Italia.

Venivano agganciati al loro Paese e fatti entrare in Italia clandestinamente dalla holding, che li spacciava per regolari grazie a documentazioni fittizie, si intascava quasi per intero il denaro a loro destinato e poi, in caso di infortunio o di semplice malattia, li rispediva subito in patria, sostituendoli con nuovi “schiavi”, altri disperati provenienti dall’Est, in fuga, come loro, dalla miseria più nera.

Era un’organizzazione bene oliata quella smantellata ai primi di luglio dalla Dia del Veneto insieme al nucleo di Polizia Tributaria delle Fiamme Gialle veneziane: operava attraverso diverse società “virtuali” che fungevano da agenzie di collocamento e che assumevano a distacco le maestranze specializzate, impiegandole in ditte edili e fabbriche metalmeccaniche del Veneto e del Friuli ma anche della Lombardia, dell’Emilia Romagna della Toscana e della Puglia. Oliata nei punti giusti grazie alla presenza, nei suoi articolati gangli, di un paio di pubblici ufficiali finiti dritti dritti sotto indagine (eppure, ancora in servizio): il poliziotto pordenonese Gianluca Alletti, 39 anni, in forza all’ufficio immigrazione della Questura di Venezia e la funzionaria dell’Ispettorato del lavoro del capoluogo lagunare, la 58enne di origini romene Vera Brumau. I due, secondo le accuse del sostituto procuratore Francesco Saverio Pavone che per ora ha iscritto nel registro degli indagati 87 persone, avrebbero favorito, in cambio di cospicue ricompense in denaro, il rilascio di autorizzazioni al lavoro in distacco, il nulla osta per il visto di ingresso nel nostro Paese e il permesso di soggiorno. Autorizzazioni, queste, richieste e ottenute attraverso contratti di lavoro e dichiarazioni di assunzione e di ospitalità. Tutto, si badi bene, assolutamente falso.

Ma falso, in questa storia, era anche il resto: le buste paga, diligentemente fornite dalla commercialista siracusana Concetta Vinci, le attestazioni di pagamento dei contributi previdenziali e fiscali (è certo che nulla è stato mai versato) e, soprattutto, le società che assoldavano la manodopera. Le varie Com.on sas, Im.mo di Ruvo Mario, Eurotubi srl, Teknikon di Boldi Marco, Intercop srl, e poi Unicostruzioni srl, Antares srl e Navaltirreno srl, tanto per citarne qualcuna, erano state create per mezzo di documenti fittizi allo scopo di introdurre illegalmente i lavoratori – a gruppi di 30-40 alla volta –  e attivare i conti correnti dove far confluire i proventi. Autentiche erano solo le lettere di dimissioni, peraltro già firmate dai “kapò”, che corredavano i contratti, e i soldi, tanti soldi, che finivano nelle tasche di tutti i partecipanti al presunto sodalizio e che ora dovranno rispondere di associazione per delinquere, falso, violazione delle norme sull’immigrazione e sul lavoro a partire dal 2002 e fino al 2006.

Ad oliare “di fino” e a condurre questa macchina (quasi) perfetta ci pensava un anziano siciliano particolarmente abituato alle frodi, Angelo Pitarresi, che già nel 1996 aveva assaggiato la galera insieme a altri otto complici per una truffa da almeno 10 miliardi di lire ai danni della Comunità Europea. Non contento dei risultati raggiunti in quell’occasione, l’uomo, ingegnere 71enne nato a Villabate (Pa) ma da molto tempo residente in Veneto, tra Conegliano e San Fior (TV), ha voluto riprovarci e, forte delle sue antiche amicizie con soggetti legati alla criminalità organizzata campana, calabrese, pugliese e siciliana  – nel 1992 era stato arrestato insieme ad affiliati al clan Urso Bottaro nel corso di una guerra di mafia contro gli Aparo Trigila – ha messo in piedi una struttura criminale dal giro d’affari enorme, capace, hanno rivelato i controlli bancari degli investigatori, di far lievitare a dismisura e in brevi lassi di tempo alcuni conti correnti. In poco più di un anno e mezzo di milioni ne sarebbero stati versati 80.

La forza corruttiva di Pitarresi non conosceva ostacoli: anche un funzionario dell’Inps o dell’Inail di Brescia sarebbe da lui stato lautamente ricompensato per chiudere in maniera “indolore” una verifica sul conto della società Intercop srl, in precedenza impiegata per locare gli operai.

Ma il sodalizio era soprattutto un “affare di famiglia”: oltre ai figli Daniele, 42 anni, residente a Peschiera del Garda (Vr), ritenuto uno dei promotori del business criminale, e Sofia, 37, al suo interno operavano anche la compagna dello stesso “patron”, la 39enne Maria Ragusa, incaricata di seguire tutti gli aspetti amministrativi e procacciare le attestazioni fraudolente, e la convivente di Pitarresi junior, la russa Olga Riabova,  35 anni, che fungeva da prestanome.

Loro, quelli dell’organizzazione, guadagnavano, compravano immobili (nel corso delle 106 perquisizioni effettuate lo scorso luglio in tutta Italia ne sono stati sequestrati 81, per un valore complessivo di 20 milioni di euro), rimpinguavano conti correnti già molto abbondanti (111 quelli bloccati in 40 istituti di credito italiani: secondo gli investigatori finivano a una cosca di Catania), mentre i muratori e i carpentieri romeni erano costretti a lavorare in condizioni disumane: addirittura senza le scarpe o, come è accaduto a un saldatore, senza il grembiule per proteggersi dalle scintille, riportando così severe ustioni all’addome. Per questo, in un primo momento, era stato ipotizzato per la banda anche il reato di induzione in schiavitù.

Al suo interno c’era chi si occupava di aprire nuove società, e ciò avveniva di frequente: i soggetti, muniti di documenti falsi o rubati, intestati a persone inesistenti – per esempio all’ubiquo Acciarino Gennaro, nel caso della ditta Co.Mon sas, per mezzo della quale la presunta associazione capeggiata da Pitarresi partecipò a un subappalto per conto dell’Anas -, si presentavano da diversi notai per stipulare atti con cui cedevano ad altri soggetti inesistenti le quote di questa o quella società. C’era chi, come il napoletano Alfredo Lubrano, un pregiudicato residente a Viareggio molto vicino ai clan Mazzarella e Misso-Contini, procurava i documenti falsi o ricettati; chi faceva da responsabile delle ditte di collocamento e intascava, per conto dell’organizzazione, la gran parte dei compensi consegnati dalle aziende che impiegavano i clandestini (sui 15 euro all’ora per operaio il responsabile ne tratteneva 12). E ancora, c’era chi rappresentava le ditte che venivano utilizzate per presentare le richieste di autorizzazione al lavoro in distacco – dichiaravano domicili inesistenti o, come riporta la richiesta di misure cautelari, “inidonei a ospitare persone” – e chi era delegato ad attivare rapporti bancari e ad operare sui conti correnti.

Si presentavano bene, alle aziende italiane; rispettosi della legge e perfino molto economici, come risulta da un fax inviato dal sodale Silvano Zamparini a una ditta del Veneziano: “Disponiamo di meccanici montatori, carpentieri, saldatori. Il personale è regolarmente assunto come da C.C.N.L. e viene fornito di indumenti protettivi. Per essere competitivi sul mercato da circa un anno disponiamo di personale romeno con permesso di distacco di due anni, muratori, carpentieri edili, per gli espatriati forniamo i trasporti e gli alloggi. La società è iscritta alla Camera di Commercio e provvista delle autorizzazioni della Questura di Venezia per i distacchi del personale espatriato”.

Tra gli uomini legati all’ingegnere c’era pure uno come Stefano Stefanacci, un siracusano residente a Conegliano, estorto dallo stesso Pitarresi attraverso i fratelli Fortugno (legati a doppio filo alla consorteria mafiosa Piromalli Mulè di Gioia Tauro) o come l’ex capocantiere Giuseppe Moncada, altro siracusano stabilitosi in provincia di Treviso, che si giostrava tra pistole – antica passione anche dell’anziano “boss”, condannato per aver ceduto le armi utilizzate in una faida mafiosa -, droga, furti e rapine di macchinari edili prima di decidere di raccontare molte cose alla polizia. Tra i fatti rivelati, l’intenzione del pluripregiudicato Anselmo Caruso, braccio destro di Pitarresi e contiguo al clan Laudani, di costituire un gruppo dedito alle estorsioni di commercianti veneti.

E le aziende che impiegavano i lavoratori? Partecipavano anch’esse al sodalizio? Il pubblico ministero Pavone, da luglio trasferito alla Procura Generale, è convinto di no: “Non abbiamo accertato responsabilità da parte loro – ma, ha aggiunto – una responsabilità morale c’è. D’altra parte è il sistema a esser carente: possibile che nessuno si sia mai accorto che le ditte che assumevano queste persone avevano tutte lo stesso indirizzo? Nessuno ha verificato. In un caso la ditta era “locata” in un magazzino, in un altro addirittura in una discarica”.

Le indagini che hanno consentito alla Dia e alla Finanza di sgominare l’organizzazione erano partite nel febbraio di sei anni fa dopo che l’anziano ingegnere era stato rapinato di 50 mila euro in contanti da due complici. Prima di denunciare l’episodio, però, l’uomo aveva lasciato passare un po’ di tempo. Dodici ore. Troppe, per la polizia, che ha cominciato a sentire puzza di bruciato; troppo poche per il derubato che, prima di informare le autorità, aveva vanamente cercato di convincere i rapinatori a restituirgli il maltolto, tentando perfino di assassinarli con la complicità del figlio.

Monica Zornetta (Narcomafie, 10/2008)