La storia di Veronica: “Portando a teatro la guerra dei clan esorcizzo l’omicidio di mio padre”

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Accoccolata sul palcoscenico di un teatro napoletano, vestita di bianco, piango senza emettere suono, come prevede il copione. D’altro canto non ho voce. Interpreto la muta Caterina, l’unica figlia femmina di una madre cinica e oscura, in uno spettacolo che con i giovani attori dell’Accademia Vesuviana del Teatro stiamo portando in giro per la città. Il regista l’ha tratto da un’opera del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, “Madre Coraggio e i suoi figli”, l’ha tradotto in napoletano, gli ha dato un nome conforme – purtroppo – alla realtà di qui, “Mater Camorra e i suoi figli”, e l’ha dedicato alla guardia giurata Gaetano Montanino. Mio padre. Ucciso dalla camorra una notte d’agosto del 2009 a Napoli, mentre era in servizio.

(Ph. Ferdinando Kaiser)

Salgo sul carro che sta al centro della scena, quello con cui “mia madre” pratica il suo  crudele commercio, e dopo qualche istante il mio corpo si accascia in avanti. Il viso rivolto a terra, fingo di essere morta. Assassinata con un colpo di fucile nel corso di una delle tante guerre tra clan che si combattono nei vicoli dell’inferno. E mentre i miei “fratelli” di scena e gli altri attori, travestiti da bestie perché così il regista ha voluto rappresentare i camorristi, saltano, corrono, marciano, cantano e gridano tutto intorno, io, ad occhi chiusi, ripenso a lui. Alla sua fine.

E’ la mattina del 4 agosto 2009, fuori sta splendendo un sole accecante. La sveglia ha trillato piuttosto tardi oggi, ma non c’è problema: siamo nel pieno della desiderata vacanza greca e ce la prendiamo comoda. In questo paradiso di isola, Zante, sono arrivata ormai da qualche giorno insieme con un gruppo di amici e con il mio ragazzo, quasi tutti ventenni e quasi tutti di Ottaviano, nell’hinterland napoletano, come me. Gli amici sono la mia famiglia: non avendo fratelli né sorelle è a loro, solo a loro, che da sempre racconto i miei sogni e le mie paure. Con i miei genitori ho un rapporto particolare e tuttavia pieno d’amore: mamma e papà vivono da soli, come due eterni fidanzati, in un appartamento al primo piano, io e la nonna paterna Clotilde abitiamo in quello sotto. E’ stato papà a volere questa “divisione” perché, così mi ha spiegato mamma un giorno, teme che la mia presenza in casa con loro possa turbare il rapporto esclusivo che lui ha con lei. Papà è fantastico, è un sognatore con i piedi per terra, ed è una delle persone più oneste che  conosca, ma è anche molto possessivo verso le sue donne, tanto da rendermi complicate delle relazioni che in realtà non lo sono: non soltanto con i fidanzatini ma anche con gli amici e i compagni di scuola. Per questo, per venire in vacanza a Zante con il mio ragazzo, ho dovuto raccontare più di qualche piccola bugia. Non ho ancora sollevato i piedi dal letto greco che già mi capita di scorgere, sul display del cellulare posato sul comodino, diverse chiamate perse. Sono quasi tutte di mia zia, qualcuna anche di mia madre. Sono molto sorpresa: sanno che sono in vacanza… perché mi cercano?

Provo a richiamarle ma invano; con il passare del tempo tutte quelle loro telefonate perse, e adesso anche le mie, a vuoto, mi hanno messo un bel po’ d’ansia addosso. Perché non rispondono?

Come un automa continuo a comporre i loro numeri finché a rispondere, finalmente, è la zia. E’ molto agitata, parla di un incidente, di papà… “Questa notte c’è stato un incidente a Napoli e tuo papà è stato coinvolto. Devi tornare subito perché ti vuole vedere”, aggiunge, forse piangendo silenziosamente. Rimango così, senza parole, senza riuscire a chiederle come sta papà, dove è successo questo incidente. Niente. Lì per lì penso infatti ad un incidente stradale, ma poco alla volta, ancora prima di lasciare l’isola, si insinua in me il sospetto che le cose, forse, sono più gravi di quanto mi è stato detto. Probabilmente per proteggermi. Noto che quel giorno i miei amici sono “incollati” ai loro telefonini. Parlano con i loro genitori, e ogni volta che riattaccano li vedo sempre più scossi. Non accennano all’incidente di papà, forse non sanno, o forse fingono di non sapere, ma avverto dai loro silenzi, dai loro sguardi forzatamente allegri, che ci sono cose di cui io sono tenuta all’oscuro. Mi sento all’improvviso sola. E avverto che un dolore assurdo sta prendendo forma dentro di me; non so quale nome abbia, non lo so spiegare.

Rientro a Napoli con il mio fidanzato e con la mia migliore amica a bordo di un aereo incredibilmente vuoto. Il viaggio fino a casa è carico di angoscia. E, infine, il lungo abbraccio con mamma, stravolta dal dolore, mi fa capire quello che è successo veramente. Papà è morto durante una sparatoria, mentre era in servizio. Il collega che era con lui, in macchina, è ferito ma non in pericolo di vita. Quasi certamente si tratta di una rapina finita male. Malissimo. I telegiornali, a casa, mi svelano il resto. Mio padre non c’era già più quando la zia mi aveva chiamata, ucciso a 45 anni da alcuni ragazzi più o meno della mia età, vicini a un potente clan di Napoli, per impossessarsi delle pistole che lui e il suo collega avevano in dotazione. O così, almeno, hanno ricostruito le indagini che hanno portato poi al processo. I rapinatori, in scooter, sono comparsi all’improvviso da dietro, puntando contro di loro le armi e facendo fuoco: anche papà ha sparato, riuscendo a ferirne uno prima di essere colpito per otto volte. I malviventi sono poi scappati.

Mentre ripenso ai suoi ultimi istanti di vita, consumati dentro quella macchina, mi accorgo che sto trattenendo con fatica l’emozione. Sono Caterina ora, la sola figura buona di tutto il dramma che stiamo portando in scena, e non devo contrarre i muscoli del viso: sono pur sempre una morta, rammento a me stessa, proprio mentre Mater Camorra, accompagnata dalle grida delle sciagurate bestie a due gambe, sta attraversando il palcoscenico per venire da me, riversa sul carro. Tragicamente si inginocchia, e quando depongono il mio corpo tra le sue grosse braccia, mi culla come fossi una neonata, cantando una ninna nanna. Ma il suo cuore è indurito dalla vita e prosciugato dalla fame di potere – è quel che lo spettacolo racconta – e, dopo l’iniziale dolore per la “mia” fine, la sua vita continua come prima. Solo con la guerra lei può sopravvivere.

Io, invece, sono sopravvissuta grazie alla recitazione. E all’amore per il mio fidanzato, con cui dalla scorsa estate convivo, a Roma. Subito dopo la morte di papà avevo cercato di fare qualcosa nel sociale, portando la mia testimonianza nelle scuole e anche all’interno del carcere minorile di Napoli, dove peraltro, proprio in quel periodo era detenuto anche uno degli assassini di papà. Ma poi ho capito che non era quella la mia strada… è arrivato un momento in cui non mi sono sentita più una portatrice di speranza. E’ stata piuttosto la recitazione a farmi uscire dalla fossa della sofferenza che avevo scavato dentro di me dopo la tragedia, ad insegnarmi ad entrare nelle emozioni più intense  dell’esistenza uscendone più forte, a darmi il coraggio di cambiare il corso della mia vita. Nel 2013 mi sono diplomata attrice all’Accademia Vesuviana del Teatro di Napoli, scegliendo di ascoltare così, finalmente, la passione che sentivo incendiarmi dentro fin da bambina. Sono felice che il regista abbia offerto a me, Veronica Montanino, la parte di Caterina, e spero davvero che questo sia per me un nuovo inizio.

Monica Zornetta (Natural Style, n.149, novembre 2015)